Quale futuro vogliamo dopo l'emergenza Coronavirus?
Ne abbiamo parlato con il prof. Salvatore Coluccia, emerito di Chimica fisica di UniTo, che online ha pubblicato un intervento dal titolo "Non è una guerra"
“La domanda che ci dobbiamo porre è come vogliamo uscire non come ne usciremo dall'emergenza”. Lo sottolinea Salvatore Coluccia, professore emerito di Chimica fisica all'Università di Torino, a lungo Vicerettore dell'Ateneo, autore di un articolato intervento intitolato “Non è una guerra” (ripreso da Nuvole in una conversazione video). Oltre a sottolineare l'importanza della sanità pubblica nella lotta al Covid-19, invita a riflettere sulla questione della prevedibilità di un'epidemia e sul futuro che vogliamo.
Prof. Coluccia, c'è stato fin dall'inizio un continuo ricorso a un linguaggio bellico. Perché una pandemia non è una guerra?
La questione che ho
sollevato sulla guerra è più che altro un gioco di parole. Non è
una guerra perché in una guerra uno viene ucciso da un altro uomo o
da altri uomini. Il ricorso ai termini bellici è elusivo: ci fa
pensare “è capitato, non c'è niente da fare” e questo non è
vero. La questione che mi preme sottolineare è soprattutto quella
della prevedibilità: una pandemia era prevedibile ed era stata
prevista, non questa specifica, ma si sapeva che dovesse arrivare
un'ennesima epidemia dopo le tante dell'ultimo periodo, come ben
racconta Spillover di David Quammen. C'era un complesso di
informazioni e di esperienze che lo avvertivano, tant'è che l'Oms e
le agenzie nazionali aveva dato, negli anni, indicazioni ai governi
sui mezzi che dovevano preparare per limitare i danni, specie
all'inizio dei fenomeni. Tutto questo non è stato fatto. Nei recenti
anni passati è stata smantellata addirittura una unità all'interno
dell'agenzia nazionale che si occupava di questo in Italia. Tutti i
Paesi, o quasi, si sono trovati in questa situazione. Ora, si è
imparato molto, pagando, però, un prezzo alto.
Quanto ha giocato a
sfavore di tutto ciò il definanziamento della sanità pubblica?
Molto all'inizio. Al di là dell'essere colti di sorpresa dai sintomi e dalle conseguenze dell'infezione, il problema è stato la carenza di terapie intensive. Tutti i governi, negli ultimi decenni, hanno disinvestito sulla sanità pubblica e, nonostante questo, il Sistema sanitario italiano, riconosciuto come uno dei migliori, ha retto a un conto terribile. Grazie a medici e infermieri che non sono eroi ma sono stati straordinari. Se li chiami “eroi” ne riconosci un elemento di superiorità, dai loro una medaglia e non ne parli più. Sono stati straordinari, non solo in questa fase ma in tutti gli anni di decremento dei finanziamenti e di destrutturazione del sistema. Hanno continuato a porsi domande, a imparare, a osservare. Il sistema pubblico ha fatto molto con quello che aveva e ritengo che, di fronte a un evento del genere, solo la sanità pubblica potesse reggere.
Perché la normalità frantumata dall'epidemia era lei stessa un problema?
La normalità non era granché, le diseguaglianze crescevano. Prendiamo la scuola, possiamo davvero immaginare che un bambino, già in condizioni disagiate, sia stato avvantaggiato dalla teledidattica? Parlo di un bambino che nella scuola aveva l'unico momento di normalità e di assistenza. La normalità passata non era un granché ma quel che troveremo dopo sarà peggio. Per questo motivo, bisogna attrezzarsi per evitare altri mali. Non credo al fatto che dopo la pandemia saremo migliori, anche perché non ci saranno soldi. Sopratutto non bisogna lasciarsi andare alla ripresa spontanea della normalità, che non migliorerebbe le condizioni di prima ora peggiorate. Bisogna avere la volontà di cambiare. In questa fase di emergenza ci sono investimenti molto rilevanti, ma sono per questi mesi. E subito dopo? O dall'emergenza ne esci con piani graduali di riforma e di tutela dei diritti universali o le condizioni sociali non possono che deteriorarsi. La domanda che ci dobbiamo porre è: come vogliamo uscirne?
Se questo è quanto è avvenuto, come può essere il futuro?
Non ci si può abbandonare all'idea che tanto se ne esce e che i processi spontanei ripristineranno quello che è stato interrotto. Quelli che si credono processi spontanei sono molto ben strutturati e guidati e sono quelli che hanno portato alle condizioni di restrizione dei redditi di questi anni e di una ridistribuzione della ricchezza che ha polarizzato le risorse in pochissime mani. È anche una questione di sicurezza, se hai un livello di povertà diffuso e troppo alto, come sta avvenendo in tanti Paesi, c'è insicurezza; se continui a comportarti con l'ambiente come hai fatto finora c'è insicurezza per tutti. Per questo, dobbiamo impegnarci per un futuro diverso.
Che ruolo possono giocare l'università e la ricerca?
Inserirei nel discorso anche la scuola e la formazione in generale. Se non c'è livello di formazione al di sopra di certe soglie, diventa tutto più difficile, perché la gente non può essere bene informata. Il nostro Sistema sanitario ha retto nonostante i tagli, a prezzo di grandi sacrifici degli operatori. Il sistema scolastico-universitario invece no. Se uno prende una qualunque classifica sui livelli di istruzione, le più importanti sono quelle dell'Ocse, vede che l'Italia, negli indici di scuola e di formazione, si colloca in basso. Questa è un'intollerabile ingiustizia nei confronti dei giovani, perché si sono ridotte moltissimo le opportunità per i più deboli. Quelli forti si salvano, i più deboli pagano questa ingiustizia. L'indice relativo all'ascensore sociale si è, infatti, arrestato, anzi invertito. L'istruzione è come una grande infrastruttura: come sarebbe un Paese senza autostrade e ferrovie, ospedali e ponti? Non c'è Paese senza un'istruzione. Nello specifico di università e ricerca, si è visto quanto possano essere importanti. Il numero dei medici formati è stato insufficiente rispetto ai bisogni. La ricerca si è salvata maggiormente, avendo tempi più lunghi di reazione, ma ha trovato finanziamenti decrescenti. Il sostenere solo l'eccellenza, come parola d'ordine che ha attraversato il Paese, ha portato a finanziare sempre gli stessi, distruggendo quel tessuto di studio che è un elemento fondamentale della formazione dei giovani. Il ricorso all'eccellenza è stato un modo di camuffare la diminuzione dei finanziamenti. Certo, l'università avrebbe potuto fare di più, ma, insieme alla scuola e a tutti i livelli di formazione, si è trovata di fronte a una riduzione di mezzi e di personale che è stata penalizzante. Come si fa a pensare di fare ricerca quando la maggioranza degli addetti è precaria? Negli altri Paesi i precari sono giovani in formazione, qui è diverso. Come fai a sostenere un sistema scolastico in cui la grandissima parte dei maestri e dei professori è precaria? Che motivazione può trovare una persona per il proprio mestiere, in un lavoro incerto dove la motivazione è fondamentale. Tu Sistema-Paese cosa puoi chiedere a uno che continui a tenere precario per 15 anni? I fondi, vedi il caso dell'università, sono dati una tantum e non si incide sul sistema. All'emergenza bisogna associare un progetto che modifichi quelle condizioni che hanno influenzato la nostra reazione all'epidemia. Bisogna essere vigili, badare alle condizioni generali ed essere in grado di intervenire. Se uno non sogna, non immagina una possibilità di reazione positiva, si preclude il cambiamento del sistema.
#unitohomecommunity