Coronavirus, le nuove ritualità digitali e la rimozione culturale della morte
Intervista al Prof. Davide Sisto, filosofo e ricercatore di UniTo di Death Studies, che analizza il rapporto della nostra società con la morte e come la tecnologia aiuta l'elaborazione del lutto durante la pandemia
Dall'inizio della pandemia da Coronavirus è tornato a essere comune nelle nostre vite un rapporto quotidiano con la morte. Dalla lettura dei bollettini alle immagini in tv o sui siti web. Allo stesso tempo, però, non è più stato possibile esprimere il lutto nelle forme tradizionali. Per alcuni mesi, solo i parenti più stretti hanno potuto partecipare ai funerali e il primo novembre non si sono tenute le tradizionali cerimonie religiose, anche se i cimiteri sono rimasti aperti, in alcuni casi con ingressi contingentati. Con il professor Davide Sisto parliamo di come la tecnologia ha cambiato i nostri riti e dei motivi per cui la morte è stata rimossa per lungo tempo dalla nostra società.
Professor Sisto, in questi mesi, a causa del distanziamento fisico, molti non hanno più potuto elaborare il loro lutto nelle sue forme tradizionali, quali altre vie sono state trovate?
Questo è uno dei problemi maggiori che abbiamo vissuto nella fase del lockdown primaverile, quando è emerso con prepotenza. Ma è un fenomeno che si sta sviluppando da tempo. Ne avevo già parlato, e sembrava fantascienza, nel libro La morte si fa social nel 2018. Si tratta della tendenza sociale di utilizzare le tecnologie digitali per celebrare i funerali. Nel momento in cui il distanziamento sociale ci ha impedito di prendere parte ai funerali, abbiamo reso una normalità ciò che fino a qualche anno fa sembrava assurdo, vale a dire i funerali in streaming. Sono state utilizzate piattaforme che generalmente si impiegano per fare conferenze o per svolgere attività lavorative per partecipare a distanza a un funerale.
Come si è sviluppata questa nuova ritualità digitale?
I funerali in streaming sono nati Irlanda, in particolare come modo per venire incontro agli emigrati irlandesi che lasciavano il loro paese e non potevano per ragioni economiche tornare in patria e quindi seguivano in streaming la cerimonia. Il distanziamento sociale ha reso necessario per tutti questo tipo di pratica. Al tempo stesso si è diffuso l’uso dei cellulari come ultima forma di comunicazione per i malati intubati nelle terapie intensive ai parenti che non potevano andare a trovarli. Questi fenomeni che hanno forme molteplici e a volte piuttosto curiose, in un certo modo vengono incontro all’esigenza che nasce dall’impossibilità di incontrare l’altro e sopperiscono a una mancanza immediata. D’altro canto, creano alcuni problemi, soprattutto perché una celebrazione di un rito a distanza o un ultimo saluto a un proprio caro tramite un cellulare è privo di tutti quegli aspetti propriamente corporei che sono invece fondamentali.
La psicoterapeuta inglese Susan Barsky Reid, ideatrice dei Death Café, eventi organizzati in bar e locali per parlare di morte ha detto: “Non resti incinta se parli di sesso, non muori se parli di morte”. Secondo lei la morte è diventata un tabù, perché ne siamo così terrorizzati?
Le ragioni per cui la morte è diventata un tabù sono molteplici e riconducibili fondamentalmente al Novecento. Fino all’Ottocento la morte era parte integrante della vita quotidiana delle persone. La rimozione sociale e culturale della morte deriva da tanti fattori, dal fatto che i progressi tecno-scientifici ci hanno permesso di allungare la durata della vita in maniera esponenziale. Oggi si può vivere tranquillamente fino a ottanta o novant’anni e ci sembra normale, ma è qualcosa che nei secoli passati non era prevista. Poi, i fatti legati alle Guerre Mondiali hanno fatto sì che una volta giunti all’ultimo dopoguerra la gente fosse veramente stufa di avere a che fare con i morti, vista la tragedia vissuta e di conseguenza si è cercato in qualche modo di allontanarla dallo sguardo quotidiano. Si aggiungono, inoltre, fattori di natura politica ed economica, per cui si sono sviluppate forme di capitalismo che mirano a farci credere che dobbiamo essere immortali e sempre in forma, che la morte e il lutto sono delle debolezze. Tutti questi aspetti, uniti ad altri fattori, hanno fatto sì che, soprattutto in determinate parti del mondo occidentale, la morte sia scomparsa dalla quotidianità.
Eppure episodi di morte violenta sono al centro di cronache e programmi televisivi. Che aspetti della morte abbiamo scelto di non vedere?
Infatti, è la morte più quotidiana a essere scomparsa, perché la morte violenta, pornografica potremmo dire, che riguarda sanguinosi fatti di cronaca è presente davanti ai nostri occhi. Ma, in realtà, è una morte fittizia, perché non ci sembra riguardare noi stessi: concerne fatti molto cruenti e violenti, però lontani da noi. Da questo punto di vista, ovviamente, ci si è ritrovati a vivere come se la morte non facesse parte della vita, pensandola come un male e un’ingiustizia. Le conseguenze sono nocive sotto diversi punti di vista. Parlavo alcuni giorni fa con dei colleghi che lavorano, in questo momento, in prima fila nell’ambito delle cure palliative. Un giorno è arrivato un malato di Covid di 96 anni. I parenti hanno fatto presente agli operatori che avrebbero dovuto usare tutte le modalità possibili per cercare di tenerlo in vita. Questo è comprensibile sul piano emotivo, però dall’altro punto di vista è un’assurdità, perché è normale che una persona di 96 anni abbia raggiunto la fine della sua vita. Di conseguenza, combattere una malattia mantenendo in vita una persona in una maniera qualitativamente pessima, non fa bene soprattutto a lei. Ma dal punto di vista dei parenti occorre a tutti i costi tenere in vita la persona perché si fa molta fatica pensare alla morte e al distacco che questa comporta.
Quali sono gli effetti di questo rapporto con la morte sulla nostra percezione della pandemia?
Secondo me, ha effetti molto eterogenei e molto complessi, nel senso che, da un certo punto di vista, eravamo abituati a vivere in determinate parti del mondo occidentale una vita senza grandi problemi legati al fine vita e quindi si tendeva a vivere come se la morte non ci fosse e anzi non eravamo nemmeno abituati. Nessuno di noi, né la nostra generazione, né quelle più anziane, è abituato a vedere cadaveri quotidianamente. È un avvenimento più unico che raro. Ritrovarci innanzi a questa minaccia ha fatto sì che molte persone siano cadute in una condizione di totale panico, per questo motivo si sono rifugiate in casa e tendono a non voler uscire, perché hanno di colpo riscoperto un rischio che fino a prima della pandemia non tenevano in conto. Di fatto il rischio di poter morire, una volta usciti di casa, adesso non è molto diverso da prima, nel senso che non è che prima non si corresse il rischio di morire o di essere messi sotto da un’auto. Ma di colpo moltissime persone sono state in qualche modo paralizzate da questa minaccia e dalla riscoperta della propria vulnerabilità, tendendo a rinchiudersi in casa, senza voler più avere un approccio con il mondo esterno.
Ci sono anche effetti opposti?
Si, dall’altra parte, si è intensificato quel processo di rivolta all’idea della morte. Molti atteggiamenti dei negazionisti e delle persone, che non comprendono la ragione per cui si sta bloccando tutto nelle nostre società, sono rifiuti e sottovalutazioni dell’idea della nostra vulnerabilità e in qualche modo scambiano un principio e un pensiero filosofico più che legittimi, ossia che una società non possa basarsi soltanto sul fatto che dobbiamo tutti sopravvivere, con l’idea che in fondo non dobbiamo neanche autotutelarci e dobbiamo far finta di essere invulnerabili e immortali. Sottovalutano il fatto che una pandemia non mette a rischio solo la nostra vita, ma quella di tutti, per cui un comportamento scorretto può risultare nocivo nei confronti delle persone amate e anche delle altre persone.