La pandemia da Coronavirus ha aggravato la condizione femminile in Italia?
Intervista alla Prof.ssa Chiara Ghislieri, docente di Psicologia del Lavoro al Dipartimento di Psicologia e Presidente del CUG, il Comitato Unico di Garanzia dell'Università di Torino
L'emergenza Coronavirus ha contribuito ad allargare ancora di più il gap di genere in Italia? Quali conseguenze ha avuto il lockdown sulla condizione femminile? Lo abbiamo chiesto alla Prof.ssa Chiara Ghislieri, docente di Psicologia del Lavoro al Dipartimento di Psicologia e Presidente del CUG, il Comitato Unico di Garanzia dell'Università di Torino.
Prof.ssa Ghislieri, la pandemia ha contribuito ad aggravare la condizione femminile in Italia?
Per fare bilanci importanti occorre ancora tempo. Bisognerà capire quale impatto la pandemia ha avuto su questioni rilevanti quali quelle legate al divario occupazionale tra donne e uomini, sia in termini di presenza sul mercato del lavoro, sia in termini di salario e presenza nelle posizioni apicali, oltre che, più in generale, in termini di ripercussioni sulla qualità della vita. Accanto a questa questione c’è inoltre il drammatico problema della violenza domestica, un aspetto a rischio di aumento in relazione alle misure di contenimento della pandemia. Alcuni dati sono già disponibili (Dati provvisori Istat Aprile 2020) e sembrano evidenziare un peggioramento della condizione occupazionale generalizzato con un peso maggiore sui giovani e sulle donne ma, ripeto, è bene evitare letture frettolose.
In merito al lavoro, tra gli elementi di attenzione c’è sicuramente lo smart working. Utilizzo questa espressione ma è un errore. Le istituzioni (tra cui il Ministero) insistono nell’uso di questa etichetta, del tutto inadeguata rispetto a ciò che ha significato lavorare da remoto in emergenza: chiusi in casa, senza possibilità di uscire; in condizione di isolamento o circondate/i da altri familiari altrettanto impegnati in qualche altra attività da remoto o bisognose/i di attenzioni; con una strumentazione propria nella maggior parte dei casi e non sempre adeguata; senza formazione specifica; in assenza di una puntuale revisione dell’organizzazione del lavoro. Cosa c’è di smart in tutto questo? Evidentemente è stata positiva la possibilità di avere continuità di salario, sicurezza e risparmio negli spostamenti. Però la logica dello smart working è altra e fa riferimento a: pochi giorni a settimana di lavoro da remoto, flessibilità rispetto al luogo in cui si lavora, inserimento in un’organizzazione che si ripensa rispetto a questa modalità di lavoro in una prospettiva di autonomia, per il miglioramento della qualità del lavoro, con obiettivi di concentrazione più che non di conciliazione.
Accettando comunque questo “difetto di denominazione”, il tema è rilevante dal punto di vista del genere perché dalle prime osservazioni (in linea con quanto accadeva “prima” per tutte le forme di lavoro da remoto), è prevalente il lavoro da remoto al femminile. C’è inoltre una probabilità maggiore che siano le donne a confermare questa opzione, dove sarà possibile, anche al termine del post-emergenza. Sono molte le variabili che concorrono a questo processo che si lega al tipo di lavoro (a questo concorre la segregazione occupazionale), al prevalere di una rappresentazione delle donne “che conciliano” (stando a casa) lavoro e casa/famiglia, e che sostanzialmente risente delle aspettative sociali di ruolo, particolarmente “tradizionali” nel nostro paese: è “normale” che una donna scelga di lavorare da casa e che sia la principale responsabile della cura. È più socialmente accettato. Quante volte sentiamo richieste di strumenti (anche da parte delle donne!) per aiutare le donne a conciliare… e questo è esattamente il processo che reitera una attribuzione al femminile del carico del doppio lavoro. E questo processo riguarda anche il lavoro agile.
Come evitare che lo smart working per le donne non si trasformi in un enorme passo indietro nella condizione femminile? Quali sono gli effetti collaterali dello smart working?
Quello che possiamo osservare dai primi dati raccolti, faccio qui riferimento a uno studio in corso al quale hanno partecipato più di 700 persone in Italia (e altrettante in Francia), è una difficoltà maggiore delle donne nel lavoro da remoto: le donne, più degli uomini, hanno sperimentato esaurimento emotivo e hanno riportato maggiori problemi di insonnia. Sulle donne è pesato maggiormente il compito di conciliare (nello stesso spazio, nello stesso tempo) ruolo lavorativo e familiare, con maggiori difficoltà a recuperare energie attraverso il tempo dedicato a sé (sia esso impiegato per rilassarsi o per impegnarsi in attività che generano risorse). Ovviamente ci sono le eccezioni, parliamo qui di dati medi.
Altro tema importante è legato alle conseguenze negative sul piano della carriera: in un paese come il nostro in cui prevale ancora la valorizzazione della “presenza fisica al lavoro” e solo in qualche caso la valutazione delle persone è legata al raggiungimento degli obiettivi con discrezionalità ed autonomia lasciata alle persone, il timore è che ci sia una riduzione delle possibilità di carriera per chi è in lavoro agile. La questione era già all’attenzione degli studiosi prima del lockdown. Questo potrebbe comportare una ulteriore limitazione sul fronte dello sviluppo professionale e di carriera a meno che non cambino radicalmente (come peraltro dovrebbe essere, in linea con quanto sta accadendo in altre parti del mondo) sia le politiche di gestione dei percorsi di carriera, sia le modalità con cui donne e uomini condividono e co-gestiscono i diversi ambiti di vita. In questo c’è un importante ruolo delle istituzioni e delle organizzazioni rispetto alla promozione di culture di equità che si traducano in strumenti concreti di conciliazione e benessere, per tutte/i. E penso, con questo, tra le altre azioni, all’importanza di investire nella scuola.
Nelle varie task force di esperti di cui si è avvalso il governo per affrontare l’emergenza, il numero delle donne è decisamente inferiore a quello degli uomini. Ma perché questo accade così spesso in Italia?
Nel nostro paese la questione della partecipazione femminile è ancora problematica. Nonostante in molti settori le donne siano presenti con una competenza evidente, paradossalmente la difficoltà ad essere visibili è stata solo parzialmente ridimensionata. I meccanismi sono sempre gli stessi, anzitutto il meccanismo della staffetta: nei ruoli di vertice prevalgono uomini che tendono a scegliere uomini. I cambiamenti, in questo processo, sono quindi molto lenti e talvolta discontinui. Sappiamo però che non è solo questo, i processi alla base della minore presenza delle donne sono molteplici e non semplificabili. Certo è che, in questa circostanza le reazioni al prevalere di task force al maschile sono state decise, partecipate e nella maggior parte dei casi ampiamente condivise. Questo ha portato come conseguenza la revisione delle composizioni dei gruppi. La speranza è che non si debba fare una battaglia, ogni volta, per affermare non solo il diritto delle donne a essere presenti nei luoghi delle decisioni ma soprattutto il vantaggio della presenza femminile in quei luoghi. La speranza è che ci siano sempre meno circostanze in cui assistiamo a processi di esclusione o, per contro, a compensazioni non sempre efficaci.
Secondo i dati diffusi dal Dipartimento delle Pari Opportunità durante il periodo di lockdown sono aumentate in maniera significativa le segnalazioni di violenza di domestica e le richieste di aiuto. Secondo lei era inevitabile che accadesse?
Il tema della violenza domestica è estremamente delicato. Le disposizioni relative al distanziamento sociale per contenere il contagio hanno da subito destato preoccupazione. La casa non è un luogo sicuro per tutte e le disposizioni anti contagio hanno acuito le difficoltà ostacolando allo stesso tempo l’accoglienza delle vittime nelle strutture dedicate: sia chiaro, i centri antiviolenza e le case rifugio sono sempre rimasti attivi, nel rispetto delle prescrizioni, ma, in qualche modo, potevano apparire meno facilmente raggiungibili.
Il nostro Ateneo ha dato visibilità alla campagna social “Libera puoi”, promossa dal Dipartimento per le Pari opportunità a sostegno delle donne vittime di violenza durante l’emergenza da Covid19. La campagna aveva come obiettivo quello di promuovere il numero 1522 antiviolenza e stalking e l’app “1522” per chiedere aiuto e informazioni in sicurezza.
I dati Istat mettono in luce un +73% di telefonate al 1522, nel lockdown, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. L’aumento di telefonate si lega certamente alle campagne di sensibilizzazione mirate a ridurre il senso di solitudine, con una forte valenza preventiva. Anche in questo caso, servirà più tempo per avere un quadro complessivo e fare riflessioni puntuali. In questo scenario occorre portare avanti tutte quelle azioni preventive, a vari livelli, che posso aiutare le donne a riconoscere rapidamente i rischi e a uscire da situazioni di violenza. Mi colpisce, nella sua domanda, l’aggettivo “inevitabile”. Dobbiamo lavorare per far sì che sia evitabile: cultura di parità, processi educativi improntati al rispetto reciproco, che coinvolgano uomini e donne, sono aspetti centrali del compito formativo dell’accademia che prepara cittadine e cittadini, che saranno forse genitori, che potranno portare la loro competenza nei diversi ambiti del lavoro (istruzione, sanità, diritto, assistenza, …) e con essa un’attenzione alle questioni di genere e una sensibilità attiva nel promuovere i diritti.
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