Il vocabolario della pandemia, come media e social media hanno raccontato l’emergenza sanitaria
Ne abbiamo parlato con Eugenio Goria, docente di Linguistica del Dipartimento di Studi Umanistici all’Università di Torino
L’utilizzo della metafora della guerra ha attraversato la narrazione dell’emergenza fin dai primi giorni della pandemia. Sui giornali e in tv si è fatto molto spesso ricorso a un linguaggio bellico per raccontare le difficoltà e i progressi nella lotta al virus. Quali sono stati gli effetti? E come si è modificato il racconto dell’emergenza con il passare dei mesi? Lo abbiamo chiesto a Eugenio Goria, docente di Linguistica del Dipartimento di Studi Umanistici all'Università di Torino.
Spesso nella narrazione della pandemia sui media si è fatto ricorso a un linguaggio bellico. Qual è il motivo?
Come succede spesso in situazioni di emergenza la comunicazione privilegia immagini molto forti, come può essere quella della guerra. Ci sono anche delle analogie con la guerra, ad esempio il fatto che è stata un’esperienza che ha stravolto la vita di ognuno di noi, nella quale si sono sospese le attività ordinarie. L’uso di un linguaggio metaforico è una caratteristica intrinseca del giornalismo, come di tutti quei generi che cercano di provocare delle sensazioni nel lettore. Anche in altri contesti il giornalismo usa la metafora come risorsa espressiva, è uno degli espedienti più tipici.
L’utilizzo della metafora della guerra nel racconto dell’emergenza che effetti ha avuto?
Sicuramente ha fatto parlare, nel bene e nel male. Evocando immagini molto forti la metafora della guerra probabilmente ha polarizzato le opinioni. Sono usciti molti articoli che criticavano questa visione dicotomica di bianco e nero, buono o cattivo, che torna anche nel racconto di altre malattie. Ad esempio nei periodi di massima diffusione dell’HIV si è scritto molto della metafora della guerra, però una cosa che era stata detta all'epoca è che molti pazienti si sentivano in difficoltà rispetto a questa cosa e che avrebbero preferito una narrazione con dei temi meno forti, più pacati.
Quello che ho avuto modo di vedere io - che però è un’impressione più che il frutto di una vera e propria ricerca - è che evocare un’immagine come quella della guerra da un lato ha un effetto di sicuro impatto grazie a espressioni come “essere in trincea contro il Coronavirus”, ecc. Dall'altro lato possiamo dire che si tratta di immagini anche facilmente contestabili, ad esempio una cosa che ho letto e che condivido abbastanza è che se l’infermiere è un eroe questo evoca un po’ l’idea che sia qualcuno al di sopra del bene e del male, al di sopra delle normali qualità umane e quindi - questo l’hanno detto gli infermieri stessi - qualcuno che non ha bisogno delle tutele e delle garanzie degli esseri umani. Questa è stata una delle letture negative di questa metafora.
Com'è cambiata la narrazione dell’emergenza dalla Fase 1 ad oggi?
Quello che ho potuto vedere è che, come tutti i casi di forte novità, la comunicazione sul Coronavirus ci ha portato parole nuove o usi nuovi di parole che già conoscevamo. Per esempio l’espressione lockdown, per definire l’esperienza che tutti abbiamo vissuto, oppure fase uno, fase due, distanziamento sociale, task force, sono tutti neologismi del Coronavirus che ricorrono sulla stampa ancora oggi.
Tra la Fase 1 e la Fase 2 - adesso riporto cose che mi è capitato di leggere e che non sono il frutto di miei lavori - quello che si è visto è che all’inizio dell’epidemia, quando in Italia c’erano ancora pochi casi, gli articoli erano più tecnici. Molti tecnicismi non venivano spiegati come succede quando si parla di un qualcosa sentito come distante da noi. Mentre invece quando i numeri hanno iniziato ad essere più drammatici - è uscito un articolo su Micromega che parla di questo, gli autori sono Nicola Grandi e Alex Piovan - è stato misurato come la stampa sia diventata più chiara e didascalica e abbia cercato di spiegare il lessico specialistico.
Un altro aspetto che ho notato è che nella Fase 1, soprattutto quando avevamo ogni giorno i dati della Protezione Civile, siamo stati un po’ bombardati da numeri e da tanto lessico specialistico della medicina. Quindi buona parte della comunicazione è stata un ragionare su questi numeri. Si usano molti termini tecnici - e anche questa è una cosa che succede spesso nel linguaggio giornalistico - con un significato un po’ diluito e approssimativo soprattutto quando questi si diffondono e diventano frequenti. La parola virologo ad esempio - non so quanto si parlasse di virologi prima che si diffondesse l’epidemia - è diventata molto comune.
Un’altra cosa curiosa è che ci sono state due anime nella discussione sul Coronavirus, da un lato un grande dettaglio e quindi tanti numeri, tante informazioni, tanti termini tecnici a volte spiegati e a volte no. Dall’altra parte invece una grande vaghezza legata alla comunicazione ufficiale delle istituzioni. Quindi ad esempio i congiunti che non si sapeva chi fossero, l’autocertificazione che non si capiva bene che cosa dovesse autocertificare nelle le sue diverse versioni. Oppure ancora la confusione tra Sars-Cov-2 e Covid-19 e quindi tra il tipo di infezione e il virus stesso, la distinzione tra la passeggiata e l’esercizio fisico, dove finisce una cosa e comincia l’altra. Tutto questo fa parte di una strategia di vaghezza da parte della comunicazione ufficiale.
Ci sono state differenze nel racconto tra social media e media tradizionali?
Sicuramente si, anche solo per il diverso formato. Un post su un social è molto più sintetico e quindi ha determinate caratteristiche, un articolo giornalistico è sicuramente più lungo e anche le finalità sono diverse. Possiamo dire che probabilmente un articolo su un giornale spiega un po’ di più mentre un post da per scontato che si conoscano determinate cose perché non può spiegare tutto quanto.
Un’altra cosa che mi ha colpito e che riguarda la comunicazione ufficiale del Governo è che appunto anche gli organi ufficiali hanno comunicato molto sui social. Una cosa che mi è capitato di leggere è che la comunicazione sui social da parte del Presidente del Consiglio o di altri Ministri è stata ritenuta più efficace rispetto a quella su altre piattaforme più tradizionali.
In generale qual è il ruolo della metafora nella comunicazione umana?
Ciclicamente, ogni volta che c’è un caso come questo, torna il discorso sulle metafore proprio perché è qualcosa di molto evidente, anche di molto spettacolare. Non a caso, come dicevamo prima, le metafore vengono usate come espediente retorico per ottenere un certo impatto, per rendere efficace quello che diciamo o scriviamo. In realtà la linguistica si è occupata moltissimo di metafore in vari modi e da diversi punti di vista, io dividerei due ambiti. Il primo è quello della retorica e quindi l’uso intenzionale e voluto di determinate immagini che appartengono a una certa sfera per raccontare qualcos’altro. A questo proposito una metafora curiosa che mi viene in mente è la metafora calcistica che si usa spesso nella politica quando si parla di scendere in campo, aveva fatto parlare molto ad esempio la discesa in campo di Berlusconi. Il fatto che a metà degli anni Novanta su certa stampa si dicesse che Berlusconi scendeva in politica dava l’idea del grande imprenditore che si colloca in alto e poi scende a fare politica, contrapposta invece al salire in politica che altri avevano usato.
Ma i linguisti hanno parlato di metafora anche dal punto di vista cognitivo e quindi di come il processo metaforico sia in realtà qualcosa di implicito e di inconsapevole che avviene nella cognizione umana e che può spiegare alcune caratteristiche del linguaggio. Ad esempio una delle metafore più diffuse è quella che ci porta a concettualizzare il tempo come uno spazio; sostanzialmente noi immaginiamo il tempo come una linea dove c’è un prima e un dopo che corrispondono a un davanti e a un dietro. Oppure la metafora del corporeo, per cui noi siamo in grado, anche se guardiamo una casa o una chitarra, di dire quale sia il davanti o il dietro proprio perché attiviamo un processo metaforico per cui cerchiamo di assegnare una faccia o una bocca anche a oggetti e cose che non ce l’hanno.
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