Il teatro in quarantena, come sopravvivere all’emergenza Coronavirus
Vive nell'impossibilità di realizzarsi ma può riflettere sulle storture del sistema. Ne abbiamo parlato con il Prof. Armando Petrini del Dipartimento di Studi Umanistici di UniTo
I sipari sono chiusi, i palchi vuoti come le sale prove e così le platee. Il teatro vive un’emergenza profonda durante la pandemia da Coronavirus. Ne abbiamo discusso con il Prof. Armando Petrini, docente di Storia del teatro al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino.
Professor Petrini, tra le forme espressive, il teatro è forse quella in una situazione di maggiore emergenza, in quanto linguaggio fisico e di prossimità, spesso di contatto tra attori stessi e performer e pubblico. Come sta vivendo questa crisi?
Il teatro vive una fase di oggettiva difficoltà, essendo un'arte che ha bisogno della presenza contemporanea di attori e pubblico, si nutre di una vicinanza fisica. Se lo spettacolo e l’intrattenimento possono trovare, pur nella difficoltà, modi diversi per affermarsi utilizzando lo streaming e arrivando così al pubblico, il teatro in senso stretto, da non confondersi appunto con lo spettacolo e l’intrattenimento, vive una reale impossibilità, in quanto si tratta di un accadimento che coinvolge persone in presenza con una ricerca di qualcosa di profondo e di intenso, tipico dell'evento teatrale. Questo, ora come ora, non può realizzarsi. L’online e lo streaming sono aspetti interessanti ma non hanno niente a che fare con il teatro.
Le nuove tecnologie, anche se non possono essere sostitutive, possono tenere aperto un dialogo tra mondi divisi dal lockdown?
Certo, come sempre. Assistiamo oggi a un proliferare di attività online che hanno soprattutto il senso di mantenere un filo, un contatto, una relazione con il pubblico e di segnare una presenza. Non si tratta di teatro online, che è una specie di ossimoro. Restando all'area torinese sia lo Stabile che il Tpe hanno preparato diverse clip fruibili in rete. Il Teatro Stabile ha realizzato, per esempio, #Stranointerludio. Anche le iniziative di Fertili Terreni o di Marcido Marcidorjs non sono intese come teatro online, bensì come un tentativo di mantenere una relazione con gli spettatori. La rete offre spazi di riflessione ma non ci restituisce il teatro in sé.
In questa situazione di standby il teatro riesce a fare i conti con sé stesso?
L’attuale situazione di emergenza ha scoperchiato alcune storture profonde. E come lo ha fatto per i due pilastri della convivenza civile, la formazione e la sanità, anche per il teatro, con le debite proporzioni e senza la stessa drammaticità, si sono evidenziati i problemi di un sistema, che ha vissuto di un’impostazione basata soprattutto sul sostegno economico e culturale allo spettacolo e all'intrattenimento e molto meno al teatro in quanto ricerca e studio. Questo deficit, in questa condizione particolare, emerge macroscopicamente. Non vivendo il teatro semplicemente del momento di presenza di fronte al pubblico, si avverte come sia stata finora scarsa l’attenzione e il sostegno dato agli aspetti di ricerca e approfondimento di cui necessita il teatro.
Viste le difficoltà per spettacoli in luoghi chiusi, il teatro si prepara a una vita maggiormente outdoor? Gli interventi in soccorso della cultura sono stati adeguati?
Non mi arruolo nella fazione di chi ha criticato aspramente le scelte compiute dal governo, perché al di là di qualche ritardo ed errore, penso che si sia mosso in un orizzonte condivisibile. Ma per quanto riguarda settori come la cultura e la scuola c’è stata una incertezza che tradisce una miopia di fondo. Nel caso del teatro, come per la cultura in generale, c’è stata una sottovalutazione del problema, conseguenza di una sottovalutazione della crucialità del ruolo della cultura e del teatro nella società. Solo in questi giorni si è, infatti, iniziato a profilare ipotesi di lavoro, a livello nazionale, provando a dare qualche risposta alle esigenze. Il teatro è fatto da chi ci lavora che, in diversi casi, è rimasto improvvisamente, fra l'altro, senza stipendio. Questa situazione eccezionale ha mostrato una stortura precedente: non c’era e non c’è tutela sufficiente per chi opera nel teatro e nella cultura. Fortunatamente, qualche risposta incomincia a esserci e verosimilmente si tornerà in tempi non lontani, ai primi di giugno, a realizzare spettacoli all'aperto, con le dovute attenzioni alle norme di legge. Per quello che riguarda i lavori all'interno degli spazi chiusi, le ipotesi sono più complicate e non credo si potrà tornare nei teatri prima della fine dell’anno, perché ci sono troppe questioni da tenere in conto: dal distanziamento all'accesso, dallo sbigliettamento al deflusso fino al lavoro specifico di tecnici e maestranze. Una delle istanze più urgenti a livello nazionale è che chi lavora all'interno dei teatri, in ambito sia tecnico-amministrativo che artistico, sia posto nelle condizioni di tornare a farlo, poiché, per esempio, tuttora non si possono fare prove. Consentire a una compagnia teatrale di vedersi e di lavorare significa dare quell'ossigeno essenziale rappresentato dalle fasi di ricerca e di studio.
Nella storia del teatro quale ruolo avevano avuto le pandemie? Sia durante il periodo dell’emergenza che nella ritrattazione di argomenti ispirati a queste fasi.
Mi vengono in mente due circostanze. Il primo è un caso simile a quello attuale, ma ancora più tragico come l’influenza spagnola che si diffuse in tutto il mondo nella parte conclusiva della Prima guerra mondiale, uccidendo milioni di persone, più delle vittime del conflitto. Lo sviluppo di questa pandemia impose nel 1918 la chiusura dei teatri, tutte le sale spettacolo furono chiuse per un periodo. Una seconda questione riguarda, invece, la pandemia per eccellenza nell'immaginario culturale ovvero la peste, che è stata una metafora ricorrente nella riflessione sul teatro. Antonin Artaud, uno dei grandi teorici e visionari del teatro del Novecento, scrisse “Il teatro e la peste” in cui istituì un collegamento profondo tra i due elementi, sia dal punto di vista della forza del contagio che il teatro dovrebbe avere, sia dal punto di vista dell’attore, che dovrebbe essere come un appestato il cui fisico e la mente sono attraversati da qualcosa di travolgente come la peste. Per Artaud, il teatro deve sondare in profondità la società rivelandone il volto oscuro, non è tranquillizzante, piuttosto qualcosa di destabilizzante per la cultura e per la società. Artaud, nelle tante immagini che ci ha offerto, ha individuato questo stimolante parallelo tra il teatro e la peste.
Se consideriamo questo un passaggio come storico, potrà interrogare/interessare le discipline dello spettacolo nella loro ricerca teorica?
Una emergenza come quella che stiamo vivendo ha la capacità di rivelare in diversi ambiti le storture della nostra convivenza civile. E come in altre situazioni simili nella storia, si verifica un disvelamento: il re è nudo. La scuola e la sanità avevano gravi difficoltà, ma pochi sembravano vederlo, il teatro viveva di indirizzi di politica culturale discutibili, ma non sempre questo emergeva. Adesso questi aspetti si rivelano con un’evidenza particolare. E c’è l’opportunità di ripensare in profondità il sistema. Approfittarne sarebbe il modo migliore per attraversare questa crisi. Non è l’emergenza che ha creato la difficoltà, così per il teatro come per altro. Se il teatro non si può fare per l’emergenza Covid-19, la situazione che si è determinata rivela difficoltà più profonde e preesistenti. Quindi, è fondamentale impegnarsi sia negli indirizzi di politica culturale, per sottolineare la dignità del lavoro artistico culturale, sia nel pensiero teorico sul teatro. È questo un momento in cui si può pensare, si può ragionare.
#unitohomecommunity