I volti del Coronavirus, semiotica di una pandemia

Intervista al Prof. Massimo Leone, docente di Filosofia della Comunicazione all'Università di Torino responsabile del progetto di ricerca Facets - Face Aesthetics in Contemporary E-Technological Societies.
L'epidemia da Coronavirus ha stravolto le nostre vite. Abbiamo modificato radicalmente le nostre abitudini, il nostro linguaggio e abbiamo coperto il nostro volto con un oggetto che fino a qualche tempo fa consideravamo alquanto esotico: la mascherina. Ne abbiamo parlato con il Prof. Massimo Leone, docente di Filosofia della Comunicazione all'Università di Torino e responsabile del progetto di ricerca Facets - Face Aesthetics in Contemporary E-Technological Societies.
Prof. Leone, in che modo è cambiato il nostro linguaggio dall'avvento di questa epidemia da Coronavirus?
È prematuro dirlo; l’epidemia è ancora in corso, e con essa il cambiamento culturale che comporta; occorreranno distacco e analisi puntuali per saperlo; bisognerebbe poi specificare: il linguaggio come facoltà generale di comunicazione? Il linguaggio verbale? Le lingue? Gli altri sistemi di significazione? S’intravedono comunque alcune tendenze, ma in maniera ancora imprecisa. La comunicazione pre-pandemica era caratterizzata da mobilità continua; la domanda più rivolta al telefonino era “dove sei”? Chi si collegava da remoto lo faceva spesso perché aveva scelto il nomadismo ludico-estetico al posto della sedentarietà. Quella domanda adesso non ha più senso, per la maggior parte della popolazione. Ognuno sta a casa propria, e chi non sta a casa è stigmatizzato e si nasconde. La domanda chiave non è dunque più “dove sei?” ma “come stai?”. È un ritorno al passato, non ci interessa più sapere dove siano le persone ma come stiano, e come stiano i loro familiari.
Una seconda tendenza tipica delle situazioni calamitose è la focalizzazione tematica generalizzata: sia nella comunicazione pubblica che in quella privata non si parla d’altro. Il virus è assoluto protagonista delle conversazioni. Per cambiarne il “topic”, l’argomento, bisogna lanciarsi in affermazioni paradossali, per esempio denigrare pubblicamente un cantautore largamente apprezzato. La diversione comunque è destinata a durare poco. Allargando agli altri sistemi di significazione, la comunicazione pre-pandemica era spesso basata sull’esigenza di presentificare sé stessi presso gli altri. Formato comunicativo chiave di questa presentificazione del sé era il selfie. I selfie invece sono diminuiti moltissimo. Qualcuno all’inizio della curva pandemica scherzava con le mascherine, poi la voglia di scherzare si è esaurita, e si sono esaurite pure le mascherine. Rimangono solo i selfie “eroici” di medici e infermieri, che più che selfie sono ritratti perché non hanno nulla alle spalle, ovvero lasciano intendere che alla spalle c’è la tragedia e la morte.
Per tutti gli altri, invece, anche per i vip dello star-system, dalla necessità di presentificare sé presso gli altri si passa al desiderio di presentificare gli altri presso sé. Ci si sente soli, isolati, privati del contatto con le altre persone. Nelle reti sociali, si passa dal formato del mono-selfie a quello del multi-selfie, della collettività a quadretti, al patchwork, per rassicurare sé e gli altri che non si è soli fino in fondo, che una comunità continua a esistere, sebbene virtuale. La funzione fatica del linguaggio, quella che comprova l’esistenza di un canale di comunicazione, diviene ipertrofica, specie tra i nuovi utenti delle piattaforme di video-conferenze: Mi vedete? Mi sentite? Etc. È presumibile inoltre che il tono emotivo complessivo delle comunicazioni sia pubbliche che private viri verso un sovrappiù di emotività, a discapito del contenuto cognitivo. E poi probabile che, data l’interruzione di gran parte delle attività normali, non vi sia di fatto molto da raccontare agli altri se non le proprie impressioni, idee, emozioni e azioni previste o compiute rispetto alla pandemia.
Alla pandemia da Coronavirus si aggiunge quella che viene definita infodemia, cioè la diffusione di una quantità di informazioni enorme, provenienti da fonti diverse e dal fondamento spesso non verificabile. È possibile arginarla? E come?
È possibile arginare l’infodemia esattamente come si cerca di arginare la pandemia. Purtroppo un vaccino non esiste né per l’una né per l’altra. Potrebbe esistere, e si sarebbe potuto avere con maggiore anticipo, ma questo avrebbe richiesto un’organizzazione preventiva che manca sia rispetto alla gestione dei rischi pandemici, sia a quella dei rischi infodemici. Adesso è troppo tardi. Quando la pandemia sarà passata, come si spera, e con essa l’infodemia, si dovrà pensare in anticipo, e non sull’onda del pericolo e dell’angoscia, a migliorare l’infrastruttura della circolazione delle informazioni, con sistemi anche automatici di organizzazione delle conoscenze. Nell’emergenza, così come per difendersi dalla pandemia non vi è apparentemente altro modo che chiudersi in casa ed evitare il contagio per sé e per gli altri, mantenendo solo i contatti funzionali alla vita quotidiana, così è necessario selezionare accuratamente i canali di comunicazione, scegliendo quelli più autorevoli, e non solo nell’ambito della conoscenza istituzionale e mainstream, ma anche in quello della critica a esso. Distinguere però quali possano essere le fonti e le contro-fonti autorevoli richiede una formazione specifica, ed è esattamente quella che si sforza di fornire l’Università di Torino con i suoi insegnamenti di comunicazione.
Occorre però anche un cambiamento di mentalità: così come bisogna smettere di pensare che la mascherina serva solo a proteggere sé dagli altri, e bisogna invece cominciare a capire che serve anche a proteggere gli altri da sé, così dobbiamo capire che contro l’infodemia abbiamo bisogno della mascherina dell’istruzione, ma questa mascherina deve essere a doppio senso: la mascherina infodemica deve abituarci non solo a non assorbire idee e conoscenze infondate, ma anche a non diffonderle presso gli altri. Siamo noi tutti i portatori dell’infodemia, e molto spesso siamo portatori sani, nel senso che nemmeno sappiamo di diffondere fake news, e quando ce ne accorgiamo, se ce ne accorgiamo, è troppo tardi, abbiamo già contagiato con le nostre idee centinaia di persone, se non migliaia. Occorre prudenza nell’ascolto, ma occorre prudenza anche nella parola attiva. I giornalisti dovrebbero essere un po’ come dei bravi infermieri, e confinare in quarantena le informazioni incorrette fino a che si estinguano, invece molto spesso, troppo spesso, sono come medici distratti che contribuiscono al contagio a volte senza neppure saperlo. Quando lo fanno appositamente poi meriterebbero di essere radiati, come un medico che venisse meno al giuramento di Ippocrate.
In uno dei suoi ultimi lavori sostiene che la pandemia abbia modificato i nostri volti. A quali volti si riferisce?
Sono i volti di tutti. Innanzitutto sono i volti fisici: noi sperimentiamo l'assenza del volto dell'altro perché siamo confinati nelle nostre case oppure sperimentiamo la presenza ossessiva del volto dell'altro, del familiare ecc. A volte va bene e quindi si riscopre l'amore, l'amicizia e la fratellanza. A volte va male e non si sopporta la presenza continua di questo volto. Cambiano i volti anche nello spazio pubblico perché compare la mascherina. La mascherina è un oggetto al quale il mondo occidentale non è abituato, lo considerava come un oggetto tale da apparire soltanto in alcuni scenari molto specifici: dal dentista o dal chirurgo. Neanche una visita dal medico di famiglia includeva la presenza di questa mascherina. Adesso invece queste mascherine dilagano e portano con sé una connotazione di una medicalizzazione dello spazio pubblico. Ci sono altre altre società invece in cui ciò non avviene. Le culture dell'estremo oriente sono più abituate alle mascherine. Un po' perché sono passate per altre epidemie molto gravi in passato, oppure per attentati che attaccavano le vie respiratorie, come ad esempio il gas sarin negli attentati della metropolitana di Tokyo. Ma anche perché c'è una diversa idea dell'individuo rispetto alla comunità: in molti di questi Paesi si indossa la mascherina per proteggersi dagli altri ma anche per proteggere gli altri. La mascherina è diventata quindi così presente che si è trasformata in un'abitudine, in un oggetto di moda.
Tuttavia non credo ci si possa abituare fino in fondo alla mascherina perché, come cerco di appurare con un gruppo di ricercatori nel mio progetto di ricerca ERC che tratta proprio del volto nelle società contemporanee, il volto è un'interfaccia fondamentale nella comunicazione. È un'interfaccia sociale importantissima, non siamo abituati a vederlo coperto, e soprattutto non siamo abituati a vedere coperta questa parte del volto che comprende il naso e la bocca. Bocca che noi associamo al linguaggio verbale e al sorriso. Abbiamo quindi l'impressione di non poter comunicare quando ci si presenta qualcuno che ha una mascherina. In molte culture umane c'è questa contrapposizione, che si nota anche nel linguaggio, tra la faccia e il volto da una parte e il muso dall'altra. La mascherina ci trasforma un po' in dei musi, ci mette una museruola; ci dovremo abituare anche a capire che è un oggetto che serve a salvaguardare sé stessi e la comunità, al di là del quale speriamo di riuscire ad immaginare anche il sorriso degli altri.
#unitohomecommunity
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