Fase 2, il punto dell’epidemiologo Giuseppe Costa sull'andamento dei contagi e sull'efficacia delle misure di prevenzione
I contagi stanno rallentando ma la riapertura potrebbe comportare qualche rischio. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Costa, docente di Sanità pubblica all'Università di Torino e direttore del Servizio di Epidemiologia Regionale dell’ASL TO3
La fine della fase di confinamento porta inevitabilmente con sé qualche dubbio. Con la graduale ripresa delle attività produttive, commerciali e, in parte, anche di quelle sociali il virus tornerà a circolare? Oppure possiamo guardare con fiducia ai prossimi mesi?
Lo abbiamo chiesto al prof. Giuseppe Costa, docente di Sanità pubblica all'Università di Torino e direttore del Servizio di Epidemiologia Regionale dell’ASL TO3.
Professor Costa, cosa si può dire oggi sull'andamento dei contagi e sulla curva epidemica?
L’andamento della curva del contagio è molto favorevole e corrisponde alle previsioni fatte settimane fa. La forza della pandemia, grazie agli interventi di confinamento e di tracciamento dei casi e dei contatti, si sta spegnendo e questo vale sia per i nuovi casi sia per l’impatto sul fabbisogno di assistenza ospedaliera e soprattutto di terapia intensiva e anche per l’impatto sulla mortalità. Questo andamento è progressivo e i casi che rimangono sono prevalentemente legati a code di focolai nelle RSA e nelle famiglie che sono ancora attivi e che si stanno spegnendo. Questo ha permesso la decisione di riaprire le attività produttive e, in parte, le attività commerciali e le attività sociali. Naturalmente questa riapertura potrebbe generare dei rischi.
In termini di curva epidemica ci sono differenze importanti fra le regioni, l’Italia è divisa in tre parti: le regioni del nord Italia che sono state coinvolte da una fase molto severa dell’epidemia (Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Veneto, Valle d’Aosta e in parte Trentino), poi ci sono regioni del centro (soprattutto Toscana e Marche) che hanno avuto una diffusione più modesta e le regioni del sud e parte del centro che hanno avuto una diffusione molto limitata. Queste diversità sono prevalentemente spiegate dalla progressione dell’epidemia e dal fatto che tempestivamente all'inizio di marzo il confinamento totale di tutto il paese ha bloccato la diffusione in altre parti.
Una cosa che va aggiunta sull'andamento dell’epidemia è che le differenze che ci aspettiamo, non solo nei contagi ma soprattutto nell'impatto sulla salute con i ricoveri e la mortalità, sono molto disegualmente distribuite, perché ovviamente le persone più colpite da questo fenomeno sono le persone più svantaggiate dal punto di vista della fragilità clinica e della vulnerabilità sociale. Le profonde disuguaglianze di salute che si sono accompagnate a questa pandemia sono un elemento che spesso non viene preso in esame nella curva epidemica.
Qual è il suo giudizio sulle misure di prevenzione adottate per il contenimento del contagio nella prima fase e su quelle attuali?
Le misure di confinamento sono assolutamente efficaci. Sono state efficaci dalla Cina all'Italia e nei paesi più colpiti. C’è ancora un po’ di controversia sul fatto che ci siano paesi come la Svezia che hanno limitato molto il confinamento, l’hanno lasciato più legato alle scelte delle persone e non a una regolazione severa delle attività produttive, favorendo una maggiore diffusione dell’infezione e quindi anche una possibile immunizzazione delle persone, cercando contemporaneamente di proteggere le persone più fragili.
Ci sono strategie differenti all'interno del confinamento la cui efficacia relativa non è ancora ben stabilita, certo è che le strategie di confinamento devono fare i conti con le differenze di fattibilità tra i diversi paesi. Un confinamento molto severo come quello cinese è possibile in presenza di regimi autoritari e non in presenza di regimi democratici, un confinamento fondato sulla partecipazione volontaria delle persone è possibile in società dove sono forti la coesione sociale e il senso dell’importanza della protezione della comunità, come succede nelle tradizioni scandinave, fortemente solidaristiche e con welfare generoso. Quindi bisogna considerare che non è possibile stabilire la bontà di un modello prescindendo dalle caratteristiche sociali e politiche delle società in questione.
Un discorso diverso va fatto per le misure di prevenzione individuali, perché finora abbiamo parlato di misure di prevenzione ambientali e di regolazione. Il tracciamento dei casi e dei contatti per esempio è di sicuro di grande importanza e molto efficace nel ridurre le conseguenze e anche nel ridurre i contagi. Se la procedura viene resa efficace - se si interrompono le catene dei contagi con tracciamento tempestivo dei casi e dei possibili contatti, con la quarantena e i test per rendere efficiente l’isolamento in modo che la quarantena dei contatti sia limitata al periodo in cui si controlla se ci sia stato un contagio e per renderla sostenibile per l’impatto sulle attività produttive - allora da un lato si riduce il contagio, dall'altro si riducono le conseguenze sfavorevoli sull'impatto che si ha sull'assistenza sanitaria e si riducono anche le conseguenze economiche, perché ovviamente tenere un lavoratore autonomo ad aspettare una settimana in quarantena che arrivi il risultato del tampone, magari negativo, significa fargli perdere una settimana di lavoro, situazione pesante dal punto di vista economico e sociale.
Queste misure sono estremamente importanti e sono molto efficaci, molto meno nota invece è l’efficacia delle misure specifiche - un metro di distanza, un metro e mezzo di distanza, due metri - si sa che lavarsi le mani è importante in generale per l’igiene, che la distanza fisica e le mascherine aiutano la limitazione della circolazione e dell’esposizione, però in termini di efficacia pratica di tutte queste misure nei diversi setting (ristoranti, bar, negozi) si può dire che sono probabilmente utili, ma non si sa quanto. Sono tutte basate su plausibili ragioni, però l’efficacia reale soprattutto delle misure messe in pratica - perché poi dipende anche molto da quanto possano essere messe in pratica, è difficile ad esempio mantenere la distanza minima per due persone che si incrociano tra due scaffali del supermercato - non è ancora sufficientemente nota.
Cosa si può aggiungere sulle differenze nella gestione dell'emergenza tra le varie regioni?
Bisogna astenersi dal trarre conclusioni un po’ troppo rapide e semplicistiche come può accadere a caldo sul fatto che la Lombardia abbia avuto conseguenze molto più severe del Veneto. Siccome in Veneto si sono fatti più tamponi e in Lombardia si sono fatti meno tamponi, in Veneto il sistema non è troppo privatizzato mentre in Lombardia è più privatizzato, allora sarebbero queste le ragioni. L’andamento della curva epidemica in Lombardia è stato davvero esplosivo e insostenibile per chiunque. Se si fosse trovato nelle condizioni di esordio della pandemia della Lombardia - con una diffusione così silente dei primi contatti ormai così distribuita che quando è esplosa la bomba i moltiplicatori di contagi sono stati gli ospedali che hanno fatto da detonatore - qualsiasi sistema, pubblico o privato, sarebbe stato in difficoltà. Ormai era troppo tardi ed era difficilmente controllabile.
Non bisogna perdere l’occasione per provare con molta umiltà a mettere a confronto il funzionamento dei sistemi regionali differenti di fronte a questa emergenza per poter capire cosa la Lombardia può imparare dal Veneto, il Piemonte dalla Lombardia e viceversa. Questo è l’atteggiamento giusto con cui usare le differenze tra le varie regioni.
Possiamo essere fiduciosi guardando ai prossimi mesi o dobbiamo aspettarci una nuova accelerata dei contagi magari con l’arrivo dell’autunno?
Bisogna considerare che ci sono ancora troppe incognite, per cui bisogna essere pronti per il peggio. Non si conosce ancora se ci sarà una stagionalità o meno, se ci sarà una stagionalità è probabile che questa limiterà molto i contagi nel periodo estivo, fino a settembre o inizio ottobre, però aggraverà molto la possibile risorgenza nell'autunno/inverno. Dipende molto dal grado di immunità che viene creata, se l’immunità è stabile ovviamente questo sarà un vantaggio. E dipende anche dal grado di immunità incrociata con gli altri Coronavirus. Non dimentichiamoci che il Coronavirus Sars-Cov-2 è della stessa famiglia dei virus del raffreddore. Dipenderà anche molto dall'efficacia delle misure intraprese - è il discorso che facevamo prima - se le misure di prevenzione nei luoghi di lavoro, nei luoghi di comunicazione e di trasporto e il contact tracing (l’isolamento dei casi e dei contatti e il loro test precoce) funzionano in modo efficiente è possibile che l’impatto complessivo possa essere appiattito. Questo significa che in presenza di una popolazione ancora largamente suscettibile - oggi in Italia la percentuale di popolazione immunizzata è di sicuro è di meno del 10%, vuol dire che il 90% è ancora suscettibile - è molto probabile che questo virus produca risorgenze con un ciclo annuale o biennale. La gravità di queste risorgenze dipende molto dall'efficacia delle misure che dicevamo prima, se si riescono ad appiattire queste risorgenze in modo che ogni ondata epidemica non sia molto severa, allora il sistema sanitario potrà reggerne l’impatto e anche le conseguenze non saranno molto gravi. Naturalmente sperando che questa storia nei prossimi anni venga interrotta da un vaccino che possa rendere la popolazione sufficientemente immunizzata da impedire la circolazione del virus, questa è la speranza di tutti. Nell'attesa del vaccino bisogna prepararsi a controllare la diffusione del virus con queste misure di controllo.
Naturalmente a questi strumenti di prevenzione bisognerebbe aggiungere però - e questo dipende dalle politiche di ogni paese - la protezione dei soggetti più fragili, gli anziani con patologie croniche plurime. Questi soggetti sono quelli da tutelare di più nei confronti del contagio però spesso sono anche quelli che soffrono di più l’isolamento, quindi confinarli di più provocando chissà quali conseguenze dal punto di vista psico-sociale per proteggerli dal rischio dell’infezione sarebbe grave, ma soluzioni per questo scopo non sono ancora ben consolidate. Di sicuro dobbiamo prepararci a convivere con il virus e conviverci vuol dire riuscire a rendere sostenibili le misure di prevenzione che dicevamo, almeno finché non sarà disponibile il vaccino. Al discorso sul vaccino naturalmente bisogna aggiungere quello sul set delle cure perché è chiaro che se inventassimo un set di cure che evita tutte le conseguenze sfavorevoli dal punto di vista delle ricadute cliniche allora uno potrebbe lasciarsi infettare quanto vuole. Quindi o il vaccino o il set delle cure, in assenza di uno tra questi dovremo vivere con questo virus per un po’ e dovremo usare le misure di prevenzione.
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