Dalla Spagnola al Coronavirus. La storia delle epidemie ci dà qualche indicazione per il futuro?
Intervista al Prof. Alessandro Bargoni, docente di Storia della Medicina dell'Università di Torino.
Le malattie infettive hanno, purtroppo da sempre, minacciato gli esseri umani. Per questo ci siamo chiesti se dalla storia delle grandi epidemie, che hanno coinvolto i popoli nel passato, si possono trarre spunti per affrontare l'emergenza COVID-19. Ne abbiamo parlato con il Prof. Alessandro Bargoni, docente di Storia della Medicina in Ateneo.
Professor Bargoni, possiamo tracciare un filo conduttore tra le epidemie del XX e XXI secolo?
Sì, emerge che le pandemie del XX e XXI secolo, sono conseguenti a infezioni di virus influenzali (Orthomyxoviridae). Della pandemia scoppiata nel 1889-90, 250.000 morti in Europa, non abbiamo prove dirette del ceppo virale responsabile ma per la successiva, la Spagnola del 1918-19, 600.000 decessi in Italia, studi condotti a metà anni novanta hanno identificato nelle collezioni di reperti patologici, la completa sequenza genomica del virus: A/H1N1. Nel 1957 comparve una nuova pandemia influenzale sostenuta da un ceppo, che era già presente solo sporadicamente nei reperti patologici sottoposti ad esame postumo della Spagnola, il virus A/H2N2. Questo ceppo diede origine ad una pandemia denominata Asiatica. Ancora nel 1968 prese corpo una nuova pandemia proveniente da Hong Kong sostenuta dal ceppo A/H3N2, un’altra influenza aviaria, che provocò in Italia ventimila decessi e circa un milione nel mondo. Le epidemie del XXI secolo, SARS nel 2001, MERS nel 2012 e fino all’attuale COVID19, sono invece sostenute da virus della famiglia Coronaviridae, simili a quelli influenzali. Le pandemie del XX secolo e quelle successive hanno in comune una caratteristica molto importante: sono tutti virus zoonotici. Significa che hanno come loro serbatoio naturale gli animali selvatici; dagli uccelli ai mammiferi.
Quali sono le principali differenze con le epidemie pre globalizzazione?
La globalizzazione, nella prospettiva storico-medica, significa velocità di trasferimenti e intensi contatti sociali. Queste condizioni hanno velocizzato la diffusione di malattie e in particolare quelle in forma epidemica. Prendo come esempio di comparazione con il passato la grande pandemia di colera del 1830; dall’Asia giunse a Mosca nell’agosto di quell’anno. Poi, debordò in Polonia, in Germania e giunse a Parigi nell’agosto del 1832. Lentamente, passando dalla Provenza, giunse nei primi mesi del 1835 a Genova. Successivamente dalla Liguria, risalendo lungo la direttrice Cuneo-Savigliano, il Cholera Morbus giunse a Torino nell’agosto del 1835. In tutto cinque anni per attraversare l’Europa. Oggi la diffusione delle malattie in continenti diversi è questione di giorni. Gli spostamenti delle persone, i flussi commerciali, lo sviluppo della produzione industriale, effetti diretti della globalizzazione, sono anche concause delle alterazioni della biosfera in seguito alla continua richiesta di energia, del consumo di risorse non rinnovabili e conseguente incremento dell’inquinamento. Questi sono fattori che favoriscono la diffusione di malattie.
Stiamo assistendo a misure restrittive che isolano intere nazioni. Quanto è importante invece la cooperazione tra i diversi Stati per contenere il contagio?
La cooperazione internazionale deve fornire strumenti in grado di intervenire prima che si formino localmente le condizioni critiche di insorgenza di malattie potenzialmente pandemiche, per l’aggressività dei patogeni. Le ultime pandemie hanno evidenziato le manchevolezze dei sistemi di sorveglianza degli Stati e di conseguenza l’inadeguata capacità di risposta di un singolo Stato può mettere in pericolo la salute pubblica del mondo intero.
Lo storico israeliano Yuval Noah Harari, in una recente intervista alla CNN ha affermato: "È un’illusione pensare che a lungo termine si possa proteggersi contro quel virus semplicemente chiudendo i confini del proprio Paese". Cosa ne pensa?
Yuval Harari propugna da sempre l'abbattimento dei muri, la società aperta. Tuttavia in una recente intervista comparsa sui nostri giornali, condivide la necessità del ricorso al «diradamento sociale», fino alla chiusura dei confini di uno Stato. Non è un paradosso. È un isolamento temporaneo che egli definisce positivo perché è uno strumento razionale, parte di una più ampia strategia difensiva contro la malattia, frutto della conoscenza scientifica. Tuttavia il messaggio di Harari è più ampio, perché sottende che la salute di ognuno di noi è in relazione, in qualche misura, con la salute del pianeta e che animali, mondo vegetale, clima ed esseri umani sono in rapporto di interdipendenza reciproca in una concezione di salute globale.
Cosa ci insegna la storia della medicina?
Molteplici sono i suggerimenti che ci vengono dal passato in situazioni analoghe ma non vorrei soffermarmi sulla condizione dell’oggi, dell’innalzamento di cinture sanitarie, delle quarantene e dei confinamenti. Situazioni socialmente e umanamente difficili, ma vorrei ricordare le cause che hanno determinato questi effetti. Lo Spillover, il salto di specie dei patogeni, causa dei guai che stiamo attraversando, richiama fortemente il concetto che la tutela della salute dell’uomo è parte di una più complessa azione epidemiologica che tiene conto dell’integrazione uomo/animale/ambiente. È il concetto della «one health, one medicine», apparentemente nuovo, che prospetta un’integrazione stretta tra medicina umana, veterinaria e biologia. In realtà vecchio di 150 anni. Un’integrazione asserita da Rudolph Virchow: «Tra la medicina umana e quella animale non vi è alcuna barriera scientifica – né potrebbe esservi. L’esperienza dell’una deve servire allo sviluppo dell’altra». Sapremo finalmente agire concretamente seguendo questo invito?
#unitohomecommunity