Dal tracciamento dei contagi al vaccino, la nuova fase anti Covid vista dal Prof. Di Perri
Qual è la situazione in Piemonte e a Torino? Quali sono le attuali cure, i rischi di ricadute e perché i tamponi sono fondamentali? Ne abbiamo parlato con il direttore della struttura Malattie Infettive a direzione universitaria dell’Amedeo di Savoia
Il Prof. Giovanni Di Perri, docente di UniTo, è il direttore della struttura Malattie Infettive a direzione universitaria, con sede all’ospedale Amedeo di Savoia di Torino. È, inoltre, uno dei membri della rinnovata task force regionale. Fin dall'inizio dell'epidemia da Coronavirus è stato in prima linea nella lotta contro il virus ed ha il polso dell'attuale situazione di Torino e del Piemonte. Con lui abbiamo fatto il punto su vari aspetti che caratterizzano questa fase di passaggio, dal tracciamento dei contagi all'attesa del vaccino, dalle cure in ospedale al ruolo della medicina territoriale.
Professor Di Perri, è iniziato il secondo step della Fase 2, qual è la situazione in Piemonte e a Torino?
Al momento, godiamo ancora di un decremento dei parametri epidemiologici che deriva dal prolungato lockdown, dalla domiciliazione forzata. Abbiamo appena trascorso due settimane di riapertura molto parziale, ora siamo entrati in una fase di riapertura più ampia, ci mancano bar e ristoranti, che riapriranno a breve. Per avere un primo bilancio della misura su come tenere un equilibrio, tra tutto ciò che possiamo riaprire e i numeri dell'infezione, dobbiamo aspettare la fine del mese.
Il tracciamento dei contagi pare la miglior soluzione per il controllo della curva, come funziona?
Ha un principio semplice: un caso nuovo di contagio viene interrogato e se ne verificano i contatti, i contatti vengono sottoposti a tampone, a prescindere dalla condizione clinica (sintomatici o asintomatici). Se tra i contatti risultano positivi, si verificano i contatti di questi e così via, fino a quando non si arriva a zero infezioni ovvero si ritiene il focolaio esaurito. Questa rappresenta una ricerca attiva dei casi da contrapporre a ciò che è stata la Fase 1 in tutta Italia, con eccezione del Veneto. Quella era stata una ricerca passiva dei casi. Bisogna cambiare, perché per l’epidemia da Covid-19 nel 50% dei casi l'infezione è del tutto asintomatica. E sembra che gli asintomatici siano responsabili del 40% dei contagi. Se facciamo come nella prima fase, aspettando i casi in ospedale. vediamo solo una minoranza di ciò che il virus è capace di produrre, che non comprende tutta la catena di contagi.
Ha più volte ribadito l’importanza dei tamponi, perché sono così fondamentali? E i test sierologici?
Il tampone ci dà la risposta circa la presenza o meno del virus nell'organismo, quindi ci dice se una persona è infetta. Nella lotta a qualsiasi malattia da infezione, la diagnosi è uno degli strumenti più importanti per contrastarla. Sul tema, c'è stata una ambiguità da parte di tutte le sigle a tre lettere della nostra medicina internazionale e nazionale, dall'Oms (Organizzazione mondiale della Sanità) all'Iss (Istituto superiore di Sanità), fino allo stesso Ministero della Salute, che per motivi vari hanno assunto inizialmente un atteggiamento conservatore, sia nel definire come si trasmette l'infezione sia nel determinare quale fosse la strategia ideale per contenerla. E hanno inanellato una serie di errori che hanno condizionato quelli di molte Regioni. Il Veneto ha pensato di testa propria e bene ha fatto: si è occupato di andare a cercare di interrompere la catena trasmissiva in periferia, intercettando numerosi asintomatici, separandoli e riducendone così la contagiosità. Il tampone è inequivocabilmente, al momento, lo strumento più accreditato. La sierologia, viceversa, testimonia la produzione di anticorpi da parte dell'individuo che è andato incontro a infezione; è utile per comprendere la diffusione nella società e anche in sede clinica. Una sierologia negativa ci dice che il soggetto fino a 15 giorni prima non è entrato in contatto con il virus, una sierologia positiva determina la necessità di effettuare un tampone, in quanto può coesistere con uno stato ancora attivo e contagioso dell'infezione.
Quanto manca a un vaccino e quali sono le sue aspettative? Ha parlato di vaccino di “media efficacia”, cosa intende?
Nell'attuale sperimentazione del vaccino, una dozzina di prodotti ha superato la fase 1, quella di tollerabilità e sicurezza; molti sono in fase 2, tra cui quello dell'azienda statunitense Moderna, e sembrano associati alla produzione di anticorpi. Ora, ci sarà una fase 3 allargata, per vedere se il vaccino protegge, ovvero se la produzione di anticorpi si associa a protezione. Potrebbe bastare anche un risultato non così importante per far sì che questa infezione venga controllata in termini di salute pubblica. Mi spiego meglio: su 100 infezioni abbiamo 50 asintomatici, 30 con sintomi di breve durata e 20 con sintomi prolungati e varia compromissione, soprattutto del parenchima polmonare. Di questi 5 sono infezioni critiche e, qui, abbiamo la mortalità del 2%. Se riusciamo a produrre attraverso un vaccino una risposta immunitaria che riesca a limitare l'iniziale replicazione e diffusione del virus nel nostro organismo, in particolare nelle vie aree, e quindi a evitare quella piccola percentuale di infezioni più gravi, avremmo raggiunto il risultato principale. Negli adulti, negli ultimi dieci anni, abbiamo usato un vaccino di questo tipo. Mi riferisco al vaccino antipneumococcico che protegge molto bene dalle forme gravi, meno dalle forme respiratorie, e tirando le somme si associa a una drastica e significativa riduzione della mortalità. Se producessimo lo stesso effetto con il vaccino per il Covid-19 avremmo relegato questo virus alla stregua di altri virus respiratori che incontriamo soprattutto in inverno.
Quanto il caldo potrà aiutare?
Il freddo fa funzionare peggio l'epitelio ciliare delle nostre vie aree, facendo venire meno un meccanismo di difesa superficiale. In inverno, inoltre, si sta a scuola e nelle palestre; in estate si sta più all'aperto, che il caldo vada a infierire nei confronti del virus mi sembra difficile, ma mi piacerebbe fosse così.
Nell’attesa del vaccino come viene affrontata la malattia?
Si mette il paziente a
riposo, si controllano la funzione respiratoria e i fattori di
rischio. Nei soggetti oltre i 50 anni si fa uso di eparina a basso
peso molecolare. Questo perché, se è vero che nasce come una
malattia infettiva, prosegue nelle fasi più gravi come una patologia
polmonare su base immuno-trombotica o trombotico-emorragica. In
realtà, è una malattia nuova nel suo modo di essere e di
presentarsi e probabilmente nel profilo patogenetico; ricorda in
parte quella che chiamiamo Macrophage activation syndrome ma con una
polarità tipicamente polmonare. Il fatto particolare è che si
creano una serie di eventi a carico della vascolatura polmonare, che
esitano in fenomeni prima emorragici, poi trombotici e quindi
necrotici. Il tutto viene sostituito con una velocità spiccata, che
ci ha sorpreso, dalla fibrosi polmonare, che riduce la porzione
nobile del parenchima polmonare, che ci serve per respirare. In
ultima analisi, c'è il rischio di insufficienza respiratoria cronica
o di morire per insufficienza respiratoria.
Quali errori non bisogna commettere in caso di ricaduta?
Le ricadute non sono mai più gravi della malattia iniziale.
Quale ruolo deve avere la medicina del territorio?
Deve lavorare molto sulle infezioni asintomatiche e a livello di prevenzione, controllare che chi è infetto e sta bene sia separato dagli altri e controllare i suoi contatti. Lavorare per far sì che la malattia rimanga nel territorio e non sia concentrata in ospedale, come forse fatto in maniera eccessiva nella prima fase.
L’Ospedale Amedeo di Savoia è l’unica struttura di malattie infettive in provincia di Torino, è sufficiente? Di quali strutture avrebbe bisogno il nostro territorio?
Ogni territorio ha le sue prerogative, anche in base alla popolazione. Se Roma e Milano hanno sei strutture per ciascuna, a Torino c'è solo l'Amedeo di Savoia. Il governo con la legge 135 del 1990 (interventi urgenti per la lotta contro l'Aids) stanziò 100 miliardi delle vecchie lire per rifare l'Amedeo di Savoia, la giunta piemontese del 2005-2010 decise di utilizzare quei fondi per altro. Il cittadino ha, dunque, già pagato per ristrutturare un edificio che si trova in difficoltà, ma che ha retto bene in questa emergenza, perché il contenuto è molto buono, grazie al servizio encomiabile e di qualità fornito dagli operatori, che hanno pagato in prima persona le conseguenze della malattia. In questo territorio, l'ospedale più giovane è il Martini del 1972 ed è un problema. Torino è una città piena di risorse e dovrebbe essere più ambiziosa e far sì che i soldi pubblici siano investiti meglio.
#unitohomecommunity