Coronavirus, la cultura tra crisi e ripartenza prova a immaginare il futuro
Intervista alla Prof.ssa Giovanna Segre, docente di Economia della Cultura al Dipartimento di Economia e Statistica "Cognetti de Martiis" dell'Università di Torino.
La crisi dell'intero settore culturale italiano a causa del coronavirus impone una riflessione profonda su come gestire il nostro patrimonio in questa fase di emergenza e nei giorni a venire. Ne abbiamo parlato con la Prof.ssa Giovanna Segre, docente di Economia della Cultura al Dipartimento di Economia e Statistica "Cognetti de Martiis" dell'Università di Torino.
La pandemia da Coronavirus ha messo in ginocchio anche l'industria culturale. Qual è, ad oggi, il punto della situazione?
Da Parigi è arrivata quella che, mi auguro, si possa considerare una provocazione: vendere la Gioconda per salvare la cultura. L’opzione presentata è insensata, perché non si scambia un asset che produce un flusso perpetuo di incassi diretti e di ulteriori effetti economici indiretti e indotti preservando inoltre la proprietà di un bene di immenso valore culturale, con uno stock di denaro, che per quanto elevato, mai si avvicinerebbe a una dimensione economica comparabile. Però è vero che la cultura, anche in Italia, è in enorme difficoltà. E la difficoltà è tanto più marcata, paradossalmente, per quei settori e per quelle istituzioni culturali che più erano capaci di “stare sul mercato”, ovvero di basare l’equilibrio del proprio bilancio sugli incassi provenienti dai biglietti venduti e dalle entrate dei servizi accessori. Dove l’equilibrio economico era invece già prevalentemente garantito da trasferimenti pubblici, in applicazione a quei principi welfaristici che basano l’intervento pubblico sulla meritorietà e la dimensione di bene collettivo della cultura, il problema contingente è evidentemente molto minore, seppur in una situazione complessivamente non semplice dal punto di vista economico anche in tempi normali.
Le difficoltà di questo momento colpiscono abbastanza indistintamente l’insieme dei settori culturali delle arti performative (teatro, opera, musica, danza) e quelli dei servizi legati alla fruizione del patrimonio culturale (mostre, musei, monumenti e siti archeologici), sia per la diminuzione degli incassi, sia per il vuoto operativo e progettuale di chi vi lavora. La decisione di erogare le risorse del FUS (Fondo Unico dello Spettacolo) anche in assenza di attuazione dei progetti culturali, presa dal Ministro Franceschini, per esempio, va nell’unica direzione possibile.
Poi ci sono gli artisti visivi, a cui manca certo al momento parte dell’attività della filiera commerciale collegata al loro lavoro (gallerie, mostre, eventi), ma che hanno per fortuna una attività produttiva individuale e indipendente che non dovrebbe aver subito troppi blocchi.
Musei, teatri, cinema e club musicali dovranno necessariamente reinventarsi per sopravvivere, almeno nel breve periodo. Che scenario si prospetta?
Mi sembra che nel breve periodo non ci siano molte possibilità di reinventarsi, la cultura non si produce tanto facilmente in base a esigenze “esterne”, non si possono distanziare gli attori tanto sul palco quanto sul set per rispettare le distanze di sicurezza, non si può modificare la composizione di un orchestra o la messa in scena di un’opera lirica. E questo dal punto di vista della produzione. Ma anche dal punto di vista della fruizione è difficile immaginare come un pubblico che cerca l’emozione della partecipazione culturale possa trovarla in un ambiente che fisicamente separa e allontana dagli altri. Forse a questo problema fanno eccezione i musei, dove un po’ di distanza in prospettiva potrebbe invece aiutare a godere della visita.
Molti operatori del mondo culturale stanno in realtà decidendo di posticipare le attività. L’unica altra strada in questo momento, ma non è necessariamente possibile praticarla sempre, è quella del trasferimento sul digitale.
Tutti i festival e i grandi eventi previsti per la primavera e l'estate sono stati cancellati. È possibile immaginare un grande evento che non veda la partecipazione fisica del pubblico o bisognerà necessariamente aspettare un auspicabile ritorno alla normalità?
Anche in questo caso la decisione più condivisibile è quelle di posticipare. Non può essere che così dal momento che la fruizione della cultura è fondata su un insieme di valori fortemente esperienziali, emozionali e sociali, che uniscono le comunità di visitatori, siano questi turisti o residenti, durante le manifestazioni culturali o nei luoghi della cultura. Bisogna poter tornare a una qualche normalità, forzare troppo quando la normalità non c’è per nulla può essere controproducente sia dal punto di vista economico sia di produzione di senso. Credo che saltare un anno sia accettabile, di più sarebbe un problema.
Al momento tutta l'offerta culturale si è spostata sul web. Crede che queste iniziative digitali possano servire anche in futuro?
Sono convinta che l’offerta culturale, come dicevo prima, sia molto legata al senso di comunità che si genera attraverso la vicinanza con gli artisti. È un bene esperienziale. Ma esperienza reale e esperienza via web possono potenziarsi a vicenda, come ampiamente dimostrato in tanti altri settori produttivi. E questa dinamica positiva era ben poco praticata nel mondo culturale. Da questo punto di vista ci si può aspettare un effetto molto positivo portato da questa situazione che ha obbligato tante iniziative a passare comunque sul web temporaneamente in emergenza. Forse questo ha permesso di sperimentare senza troppo investimento economico e emotivo nuove forme e nuovi strumenti, che, salvo alcune eccezioni, ritengo però abbiano un enorme valore in termini complementari e non sostitutivi.
Banalmente, non mi sono mai spiegata la lentezza con cui nei musei si stanno, per esempio introducendo sistemi di facile e veloce prenotazione on line dell’ingresso per poter saltare la coda. Mi sembra incredibile vedere persone costrette a usare ore del loro tempo ad aspettare in piedi in fila. È più facile prenotare due notti in albergo che due ore in un museo. Credo che questo scoraggi una parte di potenziale pubblico e comunque mal dispone all’esperienza culturale e alla volontà di ripeterla frequentemente. Per gestire questa fase di ripartenza i musei non potranno fare a meno di strumenti simili. E credo che poi non ne potranno proprio più fare a meno.
Secondo alcuni commentatori il settore culturale italiano era già in crisi prima dell'avvento della pandemia. Secondo lei questa esperienza può rappresentare un'opportunità per ripensare in maniera strutturale l'intera industria culturale?
Concordo, il settore culturale italiano ha spesso carenze gestionali e sempre pochi dati per fare serie analisi e proposte strategiche e di politica pubblica evidence based. La grande rendita di posizione di cui gode il nostro paese in ambito culturale, soprattutto con il massiccio sviluppo del mercato turistico internazionale, stava via via sempre più comprimendo le possibilità di fruizione reale delle proposte culturali, talvolta compromettendone il valore culturale stesso. Forse uno stop momentaneo può aiutare a ripartire meglio. Inoltre una redistribuzione dei flussi di visitatori e pubblico verso luoghi e beni meno noti, e quindi meno a rischio di eccesso di affollamento in tempi di Coronavirus, può innescare nuovi processi di valorizzazione che altrimenti non avrebbero potuto avere la massa critica inziale sufficiente.