Cosa ci dicono le attuali curve sull'epidemia da Coronavirus in Piemonte
I dati degli ospedalizzati e delle terapie intensive indicano che la pandemia è in fase calante. Per capirne di più ne abbiamo parlato con Alessandro Ferretti, ricercatore di Fisica di UniTo
Alessandro Ferretti, docente del Dipartimento di Fisica dell'Università di Torino, studia fin dall'inizio della pandemia da Coronavirus le curve epidemiologiche: i numeri dei contagiati, degli ospedalizzati, dei ricoverati in terapia intensiva, dei tamponi e dei decessi. Un calcolo complesso che permette di avere un quadro preciso dell’evoluzione dell’epidemia e dello stato di salute di un territorio. Con lui abbiamo fatto il punto sull'attuale fase in Piemonte e compreso meglio come si lavora nella comparazione di molteplici dati giornalieri.
A livello di curve quale è la situazione in Piemonte e a Torino?
Le curve più interessanti sono attualmente quelle dei contagiati, dei ricoveri ospedalieri e della terapia intensiva. Queste ci dicono che l’epidemia è in fase calante e succede ininterrottamente dal picco di aprile: una discesa continua sia a Torino che in Piemonte. Siamo passati da circa 650 contagi giornalieri il 16 aprile a oggi con 65 contagi al giorno e non si vede segno di ripresa, anche in terapia intensiva e per gli ospedalizzati. Il picco delle terapie intensive l’abbiamo visto a inizio aprile, tra l’1 e il 4 aprile, quello degli ospedalizzati è avvenuto l’11 aprile. Prima di quella data non avevamo idea di quanti fossero veramente i contagiati, a un certo punto si sono fatti più tamponi. Il 6 aprile avevamo 2.200 tamponi al giorno, per tutto marzo 1.300 tamponi al giorno, il 27 aprile siamo arrivati a 5.500 tamponi al giorno e questo ha aumentato il numero dei contagi “certificati”. La curva dei decessi ha avuto, invece, il suo picco il 16 aprile, che concorda con il picco delle terapie intensive avvenuto circa dieci giorni prima: un dato che corrisponde all'evoluzione clinica della malattia.
Ci sono preoccupazioni per gli esiti dell’allentamento?
Da quanto si vede dai dati no, c’è un calo costante. È ovvio che la sensibilità di una media non è molto elevata. Al momento si vede che gli ospedalizzati calano con la stessa velocità dal'’11 aprile e lo stesso avviene per le terapie intensive.
Avendo lei fatto l’appello per affiancare ai test sierologici anche i tamponi, a che punto siamo con il tracciamento?
Resta il grande mistero. È stato annunciato dieci giorni fa e sarebbe dovuto partire, a livello regionale, la settimana successiva. Ma a guardare i dati dei tamponi quello che noto è che dal 19 maggio sono sempre scesi, passati da 5.700 a 4.800. I piani di tracciamento richiedono tantissimi tamponi, per ogni contagiato individuato se ne fanno molti in base ai suoi contatti, e osservando i dati mi viene da dire che non stiamo ancora tracciando, perché sarebbero dovuti almeno rimanere costanti. Essendosi ridotto il numero dei contagi questo sarebbe il momento giusto per tracciare i contatti dei contagiati.
Qual è il margine di errore su cui lavorate vista la montagna di dati e le differenze tra regione?
Se il dato fornito pare apparentemente preciso, il problema è come viene calcolato o, per esempio, i margini di errore sui test. Per questo è difficile stimare l’incertezza. Quello che, allora, si può fare per ridurla è confrontare tantissime situazioni diverse provando a rilevare il più alto numero di informazioni. Per esempio, il Veneto conta una marea di test ripetuti, ma perché ha testato il personale sanitario con due tamponi per avere la certezza della negatività. Ogni dato dovrebbe essere, infatti, corredato da indicazioni su come sono state acquisite le informazioni. Le incertezze non sono poche sui dati dei contagiati, il dato più affidabile è quello sulle terapie intensive e gli ospedalizzati. Trovo, però, grave che non ci siano dati scorporati pubblici e consultabili, anche da parte della Regione. Ci troviamo di fronte ad analisi già fatte o a valori totali, i dati scorporati sarebbero utili per capire meglio l’eventuale gravità del contagio.
Ai critici dell’utilità del lockdown, come strumento di precauzione e di diminuzione del contagio, cosa rispondono le curve anche di altri Paesi?
Guardando gli altri Paesi ma anche l’Italia è evidente che prima si istituiscono misure di restrizione meglio è. Noi abbiamo fatto il lockdown contemporaneamente in tutta Italia e ciò ha fatto sì che il contagio si sia propagato a Sud in maniera più bassa. Anche rispetto alle fughe sui treni viste nei primi giorni, in quanto la gente rimasta in casa ha ridotto i rischi di contagio. Al proposito i casi più eclatanti sono quelli di Norvegia e Grecia, che hanno imposto il lockdown ancora prima di un eventuale decesso. Noi lo abbiamo fatto dopo 330 deceduti e questo spiega enormi differenze tra noi e altri Paesi. La controprova tipica è quella della Svezia, dove ancora si dice che le mascherine non servono; se la si confronta con la Norvegia, Paesi estremamente simili, si vede che la mortalità pro capite in Svezia è nove volte più alta di quella in Norvegia.
Qual è la curva più interessante tra le varie per capire lo stato di salute di un territorio?
Quelle relative alle terapie intensive e agli ospedalizzati, che sono l’avvisaglia principale di un cambiamento nell’epidemia. E sono quelle su cui si basa probabilmente il Servizio di monitoraggio, oltre che sui dati dei medici di famiglia. Il tempo che intercorre tra contagio e ospedalizzazione è di 7-10 giorni. Se uno vede che stanno risalendo gli ospedalizzati ha, dunque, un margine di tempo per intervenire.
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