Coronavirus, perché l’elaborazione del lutto oggi è più difficile
Ne abbiamo parlato con Adriano Favole, antropologo e docente di UniTo, che ha sottolineato “l’impossibilità di elaborare i consueti riti del lutto” come per i migranti morti in mare
Una collettività che sta soffrendo, il rapporto con la morte ormai quotidiano, l’elaborazione del lutto resa più difficile dal divieto di celebrare i consueti riti funebri. Cosa comporta questo divieto? Esistono modi alternativi per rafforzare la comunità? Quali sono i cambiamenti culturali che questa crisi porterà con sé? Ne abbiamo parlato con Adriano Favole, antropologo e docente del Dipartimento di Culture, Politica e Società all'Università di Torino, autore del libro Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte, edito da Laterza.
Quale potrebbe essere un’analisi da un punto di vista antropologico di questo particolare momento storico?
Viviamo un periodo che definirei “di sospensione”, mi sembra una parola più adatta di quella che sentiamo spesso, ovvero “emergenza”. Sospensione indica proprio quello che stiamo vivendo, cioè un rallentamento o un arresto della nostra attività quotidiana che avrà una lunga ripercussione. Emergenza sa di qualcosa che domani verrà risolto. Invece questa è una vera e propria sospensione, come quelle che si possono ritrovare in molte società di cui noi antropologi ci siamo occupati. Spesso si tratta di sospensioni “volontarie”, ossia quando una società decide di interrompere il normale corso della produzione per ragioni religiose, ecologiche o di altra natura. In genere questi spazi di sospensione sono anche dei momenti di riflessione su come eravamo e sul futuro che ci vediamo davanti, quindi sospensione è nello stesso tempo un po’ registrare quello che sta capitando - la nostra è una sospensione per nulla volontaria ma è indotta dal virus che ci ha colpito - ma anche un accento di speranza che sia anche un momento di riflessione su come vogliamo essere per il futuro, anche prendendo le distanze da alcuni aspetti del “come eravamo”.
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Di forte impatto è stata l’immagine dei camion dell’esercito che trasportavano le bare a Bergamo qualche settimana fa. Perché ci ha colpito così tanto?
Quell'immagine ci ha colpito tanto perché era evocativa di tempi di guerra, noi in realtà non viviamo per nulla tempi di guerra. Questa è una battaglia che stiamo facendo contro una malattia che non ha nulla a che fare con le guerre. Le guerre si combattono fra soggetti nemici che si odiano tra di loro: esseri umani, società che si vogliono distruggere. In questo caso invece, se ne saremo capaci, è un’azione di tutta l’umanità che si difende da un agente patogeno.
Quindi da un lato ci ha colpito per questo, però ci ha colpito anche per una seconda ragione che è l’impossibilità di elaborare i consueti riti del lutto. Questo è uno degli aspetti più forti di questa esperienza che abbiamo vissuto in Italia e non solo e cioè il fatto che non abbiamo potuto celebrare la morte con quei rituali che ci aiutano a elaborare il distacco. Quell'immagine mi ha ricordato i funerali senza corpo che io insieme ad altri studiosi dell’Università di Torino avevamo analizzato a proposito dei migranti, di coloro che provavano - e provano - ad attraversare il Mediterraneo e scompaiono in mare. I loro familiari per anni non hanno potuto celebrare dei riti con il corpo. In questo caso invece i corpi erano presenti ma è stato impossibile il contatto, il saluto, quelle operazioni che ci sembrano consuete, ci sembrano rientrare nella normalità ma che sono di straordinaria importanza nell'elaborazione del lutto. Ecco, quei camion sono il segno di un lutto che andrà elaborato per tanto tempo perché quando i morti non si possono piangere, come si diceva nelle tradizioni antiche, tornano ad agitare i viventi. Un modo figurato per dire che non siamo riusciti a elaborare il distacco.
Come incide sulla comunità il divieto di celebrare i funerali?
Un aspetto che colpisce di questo momento di confinamento in cui siamo tutti coinvolti - del nostro “stare a casa” e della distanza sociale - è proprio l’impossibilità a praticare i riti. Da quelli più quotidiani come riunirci per un caffè a quelli più profondi come funerali o matrimoni. Mai come in questo periodo ci siamo accorti che i riti sono tutt'altro che azioni tipiche di società antiche o primitive, come si diceva un tempo. I riti sono parte centrale della nostra esistenza. Lo sono i riti funebri che ora non si possono praticare ma lo sono ad esempio anche quelli all'interno del mondo universitario. Io mi sono sempre speso per difendere le tesi di laurea nella forma in cui noi le celebriamo. Sono dei momenti rituali di grande importanza per le famiglie, dei riti di passaggio. Uno dei pochi riti di passaggio - per altro che non interessa a tutti perché non tutti si laureano purtroppo nel nostro paese - ma fondamentale. Oggi le lauree le stiamo facendo a distanza, in qualche modo provando ad innestare alcuni aspetti rituali, un applauso o la dichiarazione finale, ma ovviamente non è la stessa cosa.
Questo periodo ci faccia riflettere sull'importanza della dimensione rituale nella vita degli esseri umani. E rito non vuol dire per forza rito religioso, ci sono riti laici e sappiamo bene come anche nel campo della morte - anche se la società contemporanea ha vissuto una crisi dei riti funebri religiosi - sia emersa l’esigenza di riti laici, come nei crematori, pratica ormai comune anche a Torino. La dimensione rituale è un aspetto ineliminabile nella socialità umana.
Ci possono essere dei modi alternativi per rafforzare la comunità in assenza di questi riti?
La comunità è messa a dura prova dal fatto che stiamo vivendo una sorta di battaglia contro la convivenza, per salvarci dobbiamo fare una cosa che per noi è molto contro-natura - e questo si che ci deve anche far riflettere - che è allentare le convivenze. Uso il termine convivenza per riferirmi a quello stare insieme della comunità, di un paese, di un gruppo di amici. È una battaglia contro la convivenza e contro la convivenza tra noi e il virus, perché paradossalmente il virus cerca di convivere con noi anche se spesso finisce per abbatterci. Ma il suo obiettivo è quello di convivere con i corpi degli esseri umani. Come si fa a mantenere la comunità? Ci sono tante esperienze che stanno dando conto di questo persistere della comunità: vicini che si aiutano l’un con l’altro a fare la spesa, l’aiuto inter-generazionale seppur a distanza, le comunità scolastiche o le comunità universitarie che si riuniscono attraverso gli strumenti telematici. Insomma, la voglia di comunità rispunta e questo è un segnale positivo. E certamente è inedito per tutta l’umanità questo ricostruire comunità a distanza. Da questo punto di vista io sono fiducioso che ci sarà una forte risposta di quella che chiamiamo la “società civile”, quell'elemento terzo tra lo stato e il mercato, che spesso ci dimentichiamo con la sua capacità creativa di reinventare relazioni. Ecco, appena potremo uscire dalle case io penso che ci sarà una rinnovata voglia di comunità che si era fortemente indebolita per quell'accento sugli individui che abbiamo vissuto negli ultimi decenni.
Su media e social media c’è un’ostentazione in questo periodo delle storie dei nostri morti. Qual è il motivo?
Credo che sia proprio legato al fatto che non potendo elaborare il lutto nelle maniere convenzionali si cerca di coltivare la memoria con gli strumenti che abbiamo. E in questo momento gli strumenti sono quelli telematici. Per altro come stanno documentando gli studiosi della morte - penso al filosofo torinese Davide Sisto che lavora proprio sulla morte online da molti anni - questa è una trasformazione già in atto da ben prima del Coronavirus. Questo reinventarci nuovi riti e nuove forme di cordoglio che passano attraverso la rete, attraverso quello che la rete conserva dei nostri corpi, quel secondo corpo che noi abbiamo e che vive in rete. Questo crea dei problemi alla memoria, alla persistenza di vite che in realtà sono biologicamente spezzate ma è anche un’arma per praticare una sorta di elaborazione del lutto a distanza, per così dire.
Da un punto di vista antropologico questa crisi avrà degli strascichi? Quali cambiamenti culturali porterà con sé?
Ovviamente non ho la sfera di cristallo e non posso prevedere il futuro ma, a partire dall'analisi di quello che vedo, io ho alcune paure e invece alcuni aspetti su cui sono più fiducioso. La mia paura più grande è che, finito il periodo dello “stiamo tutti a casa”, come è nostro dovere fare in questo momento, superato il pericolo, le persone poi mantengano l’abitudine della distanza sociale. L’uomo con la mascherina è una buona cosa oggi, è una buona cosa quando uno rischia di diffondere una malattia che ha, ma non vorrei che l’uomo con la mascherina diventasse l’immagine dell’uomo del futuro. Ho paura che molte persone da questa situazione, specialmente se sarà ancora piuttosto lunga, usciranno con un’abitudine a distanziarsi dagli altri, con la paura a contaminarsi con gli altri e con la tendenza a vedere nell'altro un possibile portatore di virus. L’umanità è sempre stata da questo punto di vista rischiosa, praticare le relazioni sociali significa mettersi a rischio anche dal punto di vista della salute. Ovviamente non lo facciamo in questo periodo - e ci mancherebbe altro - e non lo facciamo tutte le volte che la possibilità di portare pericolo agli altri è elevata ma vorrei che poi si ricoltivasse la socialità. Come quando facciamo il cin-cin con i bicchieri e ci scambiamo i liquidi, è un modo - rituale anche questo - per dire: “Non ho paura di te”, “Mi voglio contaminare con te”. Ecco, io ho un po’ paura di questo.
L’aspetto su cui sono più fiducioso è che questa crisi ci ha fatto riflettere a lungo sulla società a cui abbiamo dato vita. Una società troppo veloce, troppo complessa, che non controlliamo più. E soprattutto una società ecologicamente insostenibile. Io spero che da questo noi usciremo con nuove pratiche della relazione con l’ambiente e con gli esseri viventi perché altrimenti questa crisi che abbiamo vissuto ora - passerà qualche decennio, forse anche un secolo - ma tornerà in una forma potenziata e con il rischio, davvero questa volta, di distruggere l’umanità.
#unitohomecommunity