Vattimo, il ricordo del prof. Ferraris: la forza della contraddizione, vero motore del pensiero
Grazie a grandi filosofi come Vattimo, Pareyson e Eco, l'Università di Torino ha giocato un ruolo cruciale nella filosofia non solo italiana del Novecento
Pubblichiamo il ricordo del Prof. Maurizio Ferraris (Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione) sulla scomparsa di Gianni Vattimo.
La contraddizione è il vero motore del pensiero, ed è proprio la forza della contraddizione che sta al centro della filosofia e della vita di Vattimo. Uomo delle istituzioni, professore, preside di facoltà, parlamentare, e insieme portatore di un anelito a una emancipazione quanto più grande possibile rispetto ai dogmi della società e del pensiero. Uomo umanamente lieve, scherzoso, pacificato, e insieme testimone e interprete di grandi lutti, con una vita che, soprattutto negli ultimi anni, aveva assunto la forma di un calvario. Si potrebbe andare avanti a lungo nell’enumerare questi paradossi e queste lacerazioni, ma vorrei fissare l’attenzione su un punto che mi sembra di particolare importanza, perché riguarda il pensiero, ciò che di lui è destinato a restare.
Vattimo, lo sappiamo tutti, è stato il filosofo dell’interpretazione. E “interpretare” è tradizionalmente una funzione vicaria. Esiste un testo, sacro o profano, giuridico o filosofico, e il lettore si impegna a farne emergere il significato, e più esattamente (secondo una visione che Vattimo ha condiviso con il suo maestro, Luigi Pareyson, e con il suo amico e compagno di cammino filosofico Umberto Eco) la molteplicità di sensi. Il che significa che l’interprete non è mai un protagonista, ma sempre un deuteragonista, un erede, qualcuno che viene dopo, e che cerca di recuperare un senso là dove lo si è dimenticato o si è offuscato.
Credo che Vattimo sarebbe stato d’accordo con questa definizione dell’ufficio dell’interprete, che è un parente stretto del compito del traduttore. Perché in definitiva anche nelle sue proposte più radicali, quando, richiamandosi a Nietzsche, sosteneva che non ci sono fatti, solo interpretazioni, Vattimo è sempre stato consapevole che l’interprete è per definizione e per vocazione qualcuno che elabora, trasmette con maggiore o minore fedeltà e libertà, ma non fonda, non istituisce.
Sin qui delle considerazioni ovvie, di buon senso. Ma il motivo per cui Vattimo è stato un grande della filosofia del Novecento sta in un ultimo e decisivo paradosso. Perché proprio attraverso l’appello alla interpretazione è stato capace di elaborare un pensiero profondamente autonomo e originale. Non è l’interprete di Nietzsche o Heidegger che ricordiamo in lui. È prima di tutto il pensatore che ha elaborato una filosofia della storia originale, quella che vede l’umanità impegnata in un processo di indebolimento dei fondamenti che è insieme la via per cui ognuno di noi può trovare i cammini della propria liberazione.
Wittgenstein ha detto che lo scopo della filosofia è insegnare alla mosca la via d’uscita dalla sua trappola. Questo è stato anche il compito che, non so quanto deliberatamente, Vattimo si è prefisso, e che ha realizzato attraverso il suo insegnamento (le sue lezioni resteranno per me indimenticabili), la scrittura, l’impegno politico e sociale. Ho parlato di Vattimo, in poche parole quando non ne basterebbero moltissime. Nel farlo mi è venuto naturale richiamare i nomi di Pareyson e di Eco. Che come Vattimo sono stati, nella formazione e, nel caso di Vattimo e di Pareyson, nell’insegnamento, legati all’Università di Torino.
Credo che il nostro Ateneo debba essere fiero della parte che ha giocato nella filosofia non solo italiana del Novecento, e questi grandi nomi di filosofi scomparsi devono essere un invito a proseguirne il cammino, a tenere viva la tradizione, per quanto diversi e dispersi possano essere i sentieri che si imboccano nel proprio cammino filosofico.