Il commento del Prof. Di Perri sulla seconda ondata della pandemia in Piemonte
L'immunologo e Direttore del Dipartimento di malattie infettive UniTo fa il punto sulla situazione Covid-19
Prof. Di Perri, partiamo da Torino. Oggi la situazione negli ospedali preoccupa sempre di più. In una riunione del Dipartimento Emergenze-malattie infettive è stato calcolato un fabbisogno giornaliero di 300-350 posti letto in Piemonte. A questo si aggiunge una carenza di personale, tra medici e infermieri. Come state affrontando queste problematiche?
Cerchiamo di recupere tutte le risorse a nostra disposizione, sia posti letto che personale. Il nocciolo della questione è che, rispetto alla prima ondata, facendo un confronto tra i primi 40 giorni della pandemia e gli ultimi 40, la differenza saliente la riscontriamo nell’indice di mortalità. Oggi è meno di 1/5 rispetto ad aprile. È un dato cinico da commentare, ma c’è una richiesta particolarmente pressante di posti letto perché non c’è quel ricambio che, purtroppo, nella prima ondata era attribuibile ai decessi. In particolare in Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna la prima ondata ha causato il decesso di molte persone vulnerabili. Le stesse persone che oggi non ci sono più. Vuol dire che, avendo tolto il grosso dei vulnerabili nella prima fase, in questa fase la mortalità è stata molto più bassa. Anche se, in riferimento al numero di posti disponibili in rianimazione in Piemonte, rispetto al giorno peggiore della fase 1 (primo aprile 2020) oggi siamo a circa 1/3 dei posti occupati. Quelli che sono aumentati, rispetto ai ricoveri in rianimazione, sono i ricoveri convenzionali: siamo al 65% di quella che fu l’accoglienza più alta della fase 1, che risale al 7 aprile. Ovviamente siamo in sofferenza, ma soprattutto perché non eravamo preparati a un’ondata di questo tipo. Stiamo cercando di far fronte all’emergenza aumentando il turnover dei malati in ospedale, ma non possiamo dimettere molti pazienti. Consideri che il 91% dei soggetti che hanno contratto il Sars Cov2 in questo momento è a casa.
Restiamo in Piemonte, altro problema sono le attese per gli esiti dei tamponi. Mercoledì i SISP (Servizi di Igiene e Sanità Pubblica) hanno fatto registrare il record di test effettuati: oltre 16mila. Però molti attendono giorni prima dei risultati. Per ovviare ai ritardi, si parla di un accordo con medici di famiglia e pediatri per test rapidi a domicilio, pensa che sia una soluzione?
Lo sarà, ma a macchia di leopardo. La medicina territoriale è ancor meno abituata a prestazioni del genere. È un progetto macchinoso, non facilmente realizzabile. L’80% dell’esercizio medico in Piemonte è molto lontano dall’assumersi responsabilità nel tenere un paziente a casa, curandolo ad esempio con l’eparina. Alcune realtà funzionano molto bene, ad esempio nelle Valli di Lanzo ci sono delle strutture che riescono a creare una sinergia tra medici e strumenti, ma non è così dappertutto. Arginare l’infezione è stato il leitmotiv della risposta alla seconda ondata, ed è dimostrato dall’aumento vertiginoso del numero dei tamponi. Purtroppo, la capacità di questo sistema è stata soverchiata da numeri estremamente elevati di contagi, processo che è iniziato con il ritorno dalle vacanze. Abbiamo vissuto una certa stabilità fino al 10 agosto, poi, pian piano, c’è stato un massiccio rientro di vacanzieri da Croazia, Sardegna, Malta, Grecia e Francia. Inoltre, il contact tracing viene fatto al rallentatore. Se il contatto lo vai a tamponare otto giorni dopo, questo ha avuto tempo di infettare l’universo mondo! La tempestività è una regola fondamentale.
Prima ha citato l’eparina. Nell’ultimo periodo si tende a parlare spesso di idrossiclorochina e altri farmici per combattere il Covid. Anche lei nei giorni scorsi aveva proposto un protocollo per la terapia domiciliare a base di eparina e desametasone. Facciamo un po’ di chiarezza sulla reale efficacia di queste cure?
Con un po’ di buon senso è quello che, sulla base dei dati scientifici disponibili, è possibile fare. Questa malattia, quando evolve, ha una componente patogenetica di tipo trombotico, per cui l’uso dell’eparina come anticoagulante ha un suo senso. L’impressione è che possa effettivamente anticipare e prevenire un certo tipo di evoluzione della patologia. Poi c’è il discorso degli antinfiammatori. All’inizio la malattia veniva presentata come una polmonite virale sensu stricto, ma in realtà non lo è. All’inizio è una malattia infettiva, che poi diventa infiammatoria. Se è vero che i cortisonici sono controindicati nella gestione delle polmoniti virali, per il SARS-CoV-2 si sono rivelati utili. C’è uno studio chiamato Recovery che, pur non essendo il massimo della metodologia, fornisce dati importanti sull’uso del desametasone. Invece, per quanto riguarda la clorochina e altri farmaci antinfluenzali non ci sono dati a supporto.
Il Direttore generale dell’EMA (Agenzia del farmaco europea) ha detto che “se tutto andrà bene, i primi vaccini verranno autorizzati tra gennaio e febbraio”. Poi ha aggiunto: “Una delle ipotesi future, oltre al vaccino, è che il virus potrebbe subire delle mutazioni tali da renderlo simile alla normale influenza”. Quanto è concreta questa possibilità di convivere col virus, piuttosto che sconfiggerlo?
Mediamente, prendendo uno spaccato demografico del nostro paese, a quattro persone su cinque il virus non fa praticamente nulla. Quindi noi dobbiamo proteggere la quinta persona. Purtroppo si tratta di un’infezione che non lascerà un’immunità protettiva permanente. Il che vuol dire che il vaccino andrà ripetuto nel tempo. Che il virus subisca mutazioni, invece, lo trovo abbastanza difficile sul piano darwiniano. Nel senso che non ha bisogno di selezionare nessuna nuova forma: si trova benissimo com’è. Lo facciamo circolare tranquillamente con le nostre cenette e i nostri spostamenti. In linea teorica potrebbe mutare, ma solo quando il vaccino verrà diffuso su larga scala.
Il 3 ottobre alla domanda “pensa che la riapertura delle scuole sia stata una delle cause dell’aumento dei contagi?”, lei ha risposto: “è presto per dirlo, ma no, le persone che arrivano da noi non si sono ammalate a scuola”. Dopo quasi un mese è sempre della stessa idea?
Si. Come sempre ci sono delle eccezioni, ma sono i papà e le mamme che infettano i bambini che poi, da infetti, vanno a scuola. Sono i genitori che vanno in giro, invitano ospiti a casa o escono a cena fuori. Poi ci sono dei casi in cui il passaggio del virus è avvenuto tra i banchi di scuola, però i bambini, quando tornano a casa, è difficile che infettino gli altri. Il bambino è mediamente meno infettante di un adulto. Ed è anche meno facilmente infettabile. Oggi bisognerebbe considerare “il prossimo” come un nemico e sé stessi come dei positivi asintomatici.
Quindi anche lei teme, a breve, una nuova stretta?
È molto difficile governare un paese come il nostro in questo momento, me ne rendo conto. Soprattutto prendere dei provvedimenti che sono estremamente impopolari. L’unico provvedimento di cui conosciamo l’effetto, per esperienza diretta, è il lockdown totale. Sarebbe bello che delle chiusure parziali riuscissero a sortire un effetto di magnitudo significativa, tale da far deflettere la curva dei contagi. Ma mi sembra abbastanza difficile, anche perché: se su dieci persone, otto si comportano benissimo e due sono scellerate, pagano tutte e dieci.
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