Dal genocidio in Darfur alla laurea all'Università di Torino. La storia di Ahmed Musa
La fuga nel deserto, il viaggio della speranza verso Lampedusa. Infine la laurea in diritti umani, per ricominciare una nuova vita in Italia
Prima di discutere la tesi in Diritti Umani sul conflitto tra Sudan e Darfur, Ahmed Musa sembra tranquillo. Rispetto ai suoi colleghi, chiamati prima di lui dalla commissione, non lascia trasparire ansia o agitazione. Solo quando viene proclamato dottore in Scienze Internazionali, con voto 90/110, si lascia scappare un timido sorriso. Il 5 settembre 2019 Ahmed è diventato il primo rifugiato sudanese laureato all’Università di Torino, ma questo è solo l’ultimo capitolo della sua incredibile storia.
Ahmed nasce a Entkena il 18 aprile 1987, due anni prima che il colonnello Al-Bashir, con un colpo di stato, prendesse il potere nello stato centrafricano. La guerra civile che si scatena in Sudan è uno dei conflitti meno noti ma, allo stesso tempo, più sanguinosi della storia. Da una parte i Janjawid (“demoni a cavallo”), miliziani filo-arabi reclutati tra le tribù nomadi dei Baggara e sostenuti dal governo Al-Bashir, dall’altra la popolazione non Baggara che in quella terra vive da secoli. Tra questi ci sono anche Ahmed e la sua famiglia, perseguitati durante il conflitto che nel 2003, nella regione occidentale del Darfur, si trasforma in genocidio. “Quando due elefanti si scontrano, la vittima è l’erba”, dice Ahmed prendendo in prestito un detto arabo.
Nonostante gli venga revocata la cittadinanza sudanese – proprio per il suo esporsi in difesa della popolazione non Baggara – Ahmed Musa nel 2007 si laurea in economia all’Università di Khartoum. Nello stesso ateneo inizia a fare l’insegnante e, l’anno dopo, si sposa con una collega conosciuta tra i banchi di scuola. “L’estate 2008 – dice – è stato il periodo più bello della mia vita. Pur vivendo una situazione simile all’apartheid, avevo un lavoro, una famiglia, una moglie e tanti progetti. Non sapevo che, da lì a pochi mesi, tutto sarebbe cambiato”.
La notte tra il 7 e l’8 dicembre 2008 un gruppo di Janjawid attacca la città di Entkena. Il padre viene arrestato, torturato e ucciso. La sorella vede morire davanti ai suoi occhi 4 figli. In totale, il raid dei Janjawid fa più di cento vittime nella sola Entkena. Lui riesce a scappare ma viene arrestato subito dopo. Resta per 7 mesi in prigione, dove si ammala a causa di un’infezione cutanea. I carcerieri lo danno per morto, così Ahmed viene scarcerato e abbandonato in un campo. Lo ritrovano dei contadini, lo soccorrono e riesce in segreto a tornare da sua madre. Non può però recarsi in ospedale, quindi si cura a casa, grazie anche all’affetto dei familiari rimasti.
Una volta guarito, Ahmed decide di scappare. In motorino, insieme a un amico, attraversa per la prima volta il deserto. Senza soldi, senza vestiti e senza documenti fino ad Al-Fashir, ultimo avamposto di civiltà prima del nulla fatto di dune e sabbia. Lì trova un passaggio su un carro bestiame per Cufra, città della Libia meridionale. “Era l’unico modo per fuggire dal Sudan. C’era un camion che trasportava capre e altri animali. Insieme a loro, quella notte, c’ero anch’io”.
Da Cufra arriva a Tripoli, dove la vita sembra riservargli un momento di tranquillità. Trova lavoro in un’azienda che si occupa di import/export. Vi resta dal 2009 al 2011, fino all’esplosione della Primavera Araba e la conseguente guerra civile libica. Ahmed ne ha abbastanza e, come 3 anni prima, si rimette in marcia. Dalla Libia si imbarca su un gommone, destinazione Lampedusa. Il viaggio nel Mediterraneo dura 7 giorni e 7 notti. “Eravamo un centinaio di persone – racconta con gli occhi lucidi – stipate una sull’altra. All’alba dell’ottavo giorno, quando siamo finalmente arrivati a terra, mi sono sentito un miracolato. La metà dei miei compagni erano morti, schiacciati come pomodori”.
Il 16 agosto arriva a Lampedusa. Dopo 5 giorni in un centro di accoglienza gli danno un numero di identificazione e una nuova destinazione: la Puglia. “Uno dei miei libri preferiti – confessa Ahmed – è ‘Se questo è un uomo’ di Primo Levi. Come me, anche lui ha dovuto fronteggiare questo tipo di difficoltà. Mi ha dato la forza per non arrendermi”. Viene mandato a Taranto, poi a Castellaneta Marina. Resta per 7 mesi nell’hotel Jonico di Castellaneta, dove ottiene lo status di rifugiato. Il giorno di Natale 2012 viene espulso dall’hotel, gli consegnano 500€ e gli dicono: “Ora veditela da solo”.
Non sapendo dove andare raggiunge un amico in Francia, nella Jungle di Calais. Dalla Francia arriva a Torino, il 24 marzo 2013. Ad attenderlo avrebbe dovuto esserci un amico, che però non si presenta. Ahmed resta per 3 notti alla stazione di Porta Nuova, dove incontra un gruppo di sudanesi che lo ospita per più di un anno in una casa occupata in via Niccolò Paganini. Sotto la Mole decide di iscriversi all’Università. Grazie all'intervento della Dott.ssa Marta Levi e della Dott.ssa Ilda Curti, ottiene tutti i documenti necessari per diventare studente UniTo. Trova una sistemazione al collegio universitario, riceve una borsa di studio dalla Fondazione Erri De Luca e un aiuto dall'Associazione Mosaico.
Durante la permanenza a Torino Ahmed si è dato da fare, non solo sui libri. “Ho lavorato in un McDonald’s e mi sono occupato della pulizia allo Juventus Stadium. Piccoli lavoretti di cui non mi vergogno, anzi. Aggiungi che sono tifoso bianconero da quando ero in Sudan – confessa sorridendo – quindi andare allo stadio per me era davvero bello”. Negli anni torinesi è stato anche vittima di attacchi razzisti. Due italiani lo hanno aggredito, di notte, ma sono stati denunciati e condannati.
Dal 5 settembre Ahmed Musa è dottore in scienze internazionali, secondo titolo accademico aggiunto a un curriculum che racconta solo in parte la sua storia. La dedica sulla prima pagina della tesi è “a Nelson Mandela”, suo figlio nato l’anno scorso e chiamato così proprio in onore del leader sudafricano. “Ho sofferto solo in minima parte ciò che ha sofferto Mandela negli anni di Robben Island” – spiega. Il piccolo vive con la madre in Norvegia, anch’essa rifugiata. Ma Ahmed non sembra intenzionato a raggiungerli, anzi, il sogno sarebbe far sì che tutti insieme comincino una nuova vita in Italia. “Voglio continuare a studiare a Torino, sto pensando di iscrivermi al dottorato. Anche se non ho la cittadinanza – dice con orgoglio - io mi sento italiano al 100%”.