Primo maggio, la straordinaria storia della canzone di protesta
Dal più atavico strepito ai canti dai balconi ai tempi del Coronavirus, passando per gli anni Sessanta: un viaggio avventuroso condotto da Ilario Meandri e Jacopo Tomatis, musicologi del Dipartimento di Studi Umanistici
La protesta in forma di canto o canzone è il più potente veicolo di istanze, speranze e anche rabbia. Nel giorno del Primo Maggio, che quest'anno, visto il lockdown deciso con il dilagare dell'epidemia da Coronavirus, non sarà in piazza, ripercorriamo con Ilario Meandri e Jacopo Tomatis, musicologi del Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università di Torino, le origini della canzone di protesta. Una storia complessa e articolata, che dal passato guarda al presente e al futuro.
Lavoro e musica, quando e come maturò questo legame e come nasce la canzone di protesta in Italia?
Bisognerebbe scomporre la domanda in due parti, una molto più generale, di carattere antropologico-musicale, ovvero quale è il rapporto tra musica/suono e lavoro; l’altra più circostanziata, e cioè quando è possibile parlare di una musica di protesta che sia propriamente rappresentativa di una coscienza sociale e di classe. Il primo quesito ci porterebbe molto lontano, se vogliamo… all’alba della storia di homo sapiens, ma è importante ricordare che le due dimensioni non sono scisse. I canti funzionali, utilizzati per organizzare ritmicamente il lavoro collettivo (o anche il gioco) o per alleviarne la fatica (come, in Italia, i canti della tonnara, i canti per la lavorazione di pietre, per la mondatura, per la lavorazione dei tessuti; o i canti marinareschi delle diverse tradizioni marittime etc.) fanno parte dell’esperienza umana e ne sono stati raccolti esempi in tutto il mondo. Talvolta questi stessi repertori possono assolvere a un duplice compito, come i numerosi esempi di canti che mentre assolvono una funzione primaria – il ritmo e la voce di una ninna nanna per addormentare il bambino, ad esempio – vengono utilizzati anche per veicolare disagio psicologico e sociale, denunciando la durezza della condizione di vita della donna nella cultura patriarcale o l’ambivalenza del vissuto nei confronti della maternità, del compagno, del nuovo nato. Un canto può cioè non nascere come canto di protesta – soprattutto come oggi lo intendiamo – ma diventare tale in determinate condizioni. Se seguiamo anche solo questo semplice esempio è facile intuire che la domanda “come nasce la canzone di protesta” può avere risposte più o meno complesse, su un arco diacronico anche piuttosto vasto a seconda della prospettiva da cui si considera la questione. Esistono e sono state documentate storicamente forme sonore di protesta come lo strepito, lo charivari, i rituali di derisione di Cristo, del mattutino delle tenebre, le manifestazioni sonore che nella nostra tradizione folklorica si eseguono parallelamente all’atto liturgico che celebra la morte del Dio in terra. L’etnomusicologo Febo Guizzi aveva coniato il termine antimusica: una categoria ombrello utilizzata per descrivere questo insieme complesso di fenomeni, funzionalmente a cavallo tra protesta, pubblica riprovazione ed esorcismo. La letteratura etnomusicologica ha raccolto esempi di antimusica in Italia, in Europa, ma non mancano in tutto il mondo casi che in modo non superficiale ripropongono questo rapporto, come i rituali legati al culto dei morti dei monaci itineranti del Bon, o i rituali amazzonici di esorcismo dell’eclissi di cui trattò Levi-Strauss. Una reazione alla “crisi della presenza”, mediante forme di assembramento sonoro, è in fondo quella cui abbiamo assistito in particolare nei primi giorni di lockdown, quando assieme agli inni e ai canti e agli applausi questo meme culturale mai estinto ha fatto la sua ricomparsa non episodica, e non solo in Italia, dai balconi… con pentole, coperchi e altri oggetti sonori tipici dello strepito. Le forme dei rituali sonori di protesta sono dunque antiche e, come nel caso dello strepito, possono essere durature, pervasive e avere uno spiccato carattere transculturale.
Ma venendo a tempi a noi più recenti se si intende per canzone di protesta il canto politico e sociale, la sua storia è databile alla rivoluzione industriale – per quanto i repertori nati in questo periodo si fondino su una koinè linguistica che si nutre e assimila la tradizione orale contadina, la tradizione urbana, il canto d’opera, la tradizione dei cantastorie e dei fogli volanti, delle grida sediziose e degli slogan di tradizione urbana e, ancora, dell’innodia borghese, con esempi risalenti alla Rivoluzione francese e al Risorgimento.
Quando e chi raccolse le canzoni del lavoro in Italia? A Torino? E oggi qualcuno continua la tradizione?
L’idea di raccogliere le canzoni dei lavoratori e di rimetterle in circolazione in canzonieri, dischi, concerti si può datare agli esordi del folk revival in Italia, all’inizio degli anni Sessanta. Tra i primi ci furono proprio i torinesi Cantacronache, che nella seconda parte della loro storia – dopo essersi dedicati alla composizione di nuove canzoni “realiste” e impegnate – realizzarono una importantissima raccolta di brani che documentavano le lotte contadine e operaie, insieme ai canti della Resistenza, della guerra... Intorno al 1963 il loro testimone viene raccolto dal gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano, che dominerà la scena del folk revival nazionale fino alla fine degli anni Settanta, e alla cui opera di divulgazione si deve la sopravvivenza nei repertori e negli ascolti degli italiani di molti canti contadini e operai, dall’Ottocento in poi. A questo stesso periodo di impegno politico e ricerca si deve ad esempio il successo di Bella ciao – sulla cui origine ancora si dibatte, cfr. Bermani 2020 – forse non creato ad arte dal revival, come alcuni vorrebbero, ma certamente enormemente popolarizzato da quest’ultimo, che lo ha reso il canto internazionale “popular” che tutti oggi conosciamo.
Per un esempio recente di “reincarnazione” ci piace ricordare, in questo periodo, Çav Bella, una versione largamente circolata e fatta propria come canto di resistenza nel Kurdistan turco contemporaneo (in questo esempio diversi artisti curdi interpretano Çav Bella per solidarietà con il popolo italiano durante i primi giorni del nostro lockdown).
Quali sono le fasi storiche della canzone di protesta Nel Novecento? E come è cambiato il rapporto tra forma e contenuto?
È una storia lunga e complessa, di certo, la stagione chiave è quella che comincia con gli anni Sessanta, con il revival dei canti sociali, innescato anche dall’avvio, nel decennio precedente, delle prime campagne di ricerca sul campo sulle musiche “popolari”, “tradizionali”, italiane. In questa fase tornano in circolazione molte melodie provenienti dal repertorio dei cantastorie, o dall’innodia socialista o anarchica della fine del diciannovesimo secolo, e spesso gli stessi moduli si prestano a nuove rielaborazioni. Allo stesso tempo, gli anni Sessanta sono anche gli anni in cui arriva in Italia il modello del folk revival americano, con il successo di Bob Dylan per esempio. Si cristallizza una certa idea di come deve suonare una canzone di protesta: un certo tipo di vocalità “autentica”, aspra, la chitarra acustica: un modello che in buona parte sopravvive ancora oggi, a dispetto di tutto.
Quanto si sono, invece, attualizzate le canzoni di protesta negli ultimi anni?
In Italia, la produzione di “canzoni di protesta” declina rapidamente alla fine degli anni Settanta, in parallelo alla crisi della sinistra e al ripiegamento delle organizzazioni sindacali. Continuano a esserci brani di protesta, ma – da un lato – non hanno più quella centralità nel dibattito che avevano nell’”epoca d’oro” degli anni Sessanta e Settanta. E, dall’altro, quel repertorio a sua volta entra nel ciclo nostalgico del revival, per cui assistiamo all’eterno ritorno dei vecchi brani politici. La stagione delle posse negli anni Novanta aveva fatto immaginare uno spostamento delle istanze di protesta sul nuovo linguaggio del rap, ma l’hip hop italiano ha poi seguito altre strade.
E quanto la musica è ancora veicolo di protesta relativamente al tema del lavoro visto anche il depotenziamento della classe operaia?
In realtà, temiamo, molto poco. La prova è data dal Concertone del Primo Maggio organizzato dai sindacati, che non è quasi mai riuscito a uscire dalla spossante riproposizione dei soliti cliché barricaderi, ormai completamente depotenziati e facili alla parodia; tipo «la chitarra acustica accordata calante» e il «percussionista ghanese che è stato ricollocato in un complesso pugliese», come cantavano Elio e le Storie Tese in “Complesso del Primo Maggio”. Meglio è andata quando è stato aperto, con prevedibili polemiche, alla trap. Si è trattato di uno dei pochi, autentici e forse poco compresi, momenti di rottura nella storia recente del Concertone, nel quale davvero un nuovo fenomeno generazionale e creativo, come la trap, con spiccati caratteri di rottura e con agiti (non propagandati), tratti antisistema si è affacciato alla paludata ribalta politico-mediatica. Ma certo ci troviamo in un mondo completamente diverso, che è difficile armonizzare – a meno di forzature – con le “vecchie” istanze politiche, con la stessa costruzione ideologico-politica dell’immaginario poietico e ricettivo della canzone (e del cantante) “di protesta” – un immaginario che ha però perso, nel frattempo, assieme alla storia politica che rappresenta, il monopolio dell’antagonismo. Ma grandi canzoni sul lavoro ne sono state fatte anche nell’ultimo decennio: ci piace ricordarne una, splendida: “Torino pausa pranzo” di Iosonouncane, che racconta dei funerali dei morti della Thyssenkrupp.
Che colonna sonora immaginate per il 1 maggio 2020, che non sarà di piazza?
Difficile a dirsi: se l’altra festa “civile” dell’Italia repubblicana, il 25 aprile, ha una canzone che è diventata una specie di inno non ufficiale (vale a dire Bella ciao, che non a caso ha imperversato anche quest’anno da balconi e dirette streaming) sul fronte della popular music non esiste (o non esiste più) niente di paragonabile per la Festa dei lavoratori. D’altra parte, le (molte? Troppe?) nuove canzoni composte in tempo di quarantena, con poche eccezioni, non sembrano aver molto di originale da dire, per il momento, sulla condizione dei lavoratori nel pieno della maggiore crisi del post-capitalismo. Ed è, forse, un peccato.
L’assenza di un Concertone di piazza, anche se ci sarà la diretta TV, potrebbe riservare qualche sorpresa sul fronte dei rituali sonori. Si potrebbe pensare che considerata l’attuale condizione ci sia necessità di riempire uno spazio, fisico e simbolico. Ma ci avventuriamo qui nel campo della previsione, un terreno sul quale dobbiamo esercitare cautela. Recentemente, ad esempio, in collaborazione con Nico Staiti, etnomusicologo dell’Università di Bologna, abbiamo raccolto informazioni su alcune tradizioni liturgiche della Settimana Santa, in passato oggetto di nostri studi. Sono luoghi segnati da una fortissima presenza del suono e del canto di tradizione orale e, anche, caratterizzate dai rituali di strepito di cui si è detto. Considerata la funzione devozionale del canto e quella apotropaica dello strepito immaginavamo che le confraternite laicali o i soggetti che ne sono variamente responsabili, avrebbero certamente trovato un modo originale per “aggirare”, diciamo così, i vincoli del lockdown non rinunciando – particolarmente in questo momento – ad una liturgia sonora radicata e condivisa. Siamo stati smentiti dai primi rilievi, che indicano invece un’adesione incondizionata allo spirito (in fondo anch’esso penitenziale) del lockdown. Per la prima volta in secoli molte liturgie della Settimana Santa sono state sospese, sostituite, dal punto di vista sonoro, da un radicale silenzio. Capire perché sarà compito della ricerca e fare previsioni su un terreno così complesso è rischioso.
Ma possiamo senz’altro giocare con l’immaginazione. Ci aspetteremmo una fusione sincretica tra le manifestazioni sonore che hanno caratterizzato il lockdown e il 25 aprile (una Bella ciao globale dai balconi del mondo anche per il 1 maggio?). Ci aspettiamo ancora, sul terreno più ovvio, l’iniziativa individuale ma coordinata di molti musicisti dai tetti e dai balconi, eventi amplificati dai social media e, soprattutto nei giorni seguenti, accompagnati forse dalla ri-sorgenza – carsica, come l’aveva definita Leydi – di alcune manifestazioni dello strepito, ancora in chiave liberatoria e apotropaica, ma forse con un’intensità non paragonabile a quella dei primi giorni di lockdown e che sarebbe stata senza dubbio maggiore se la fase 2 fosse stata più recisa (non caratterizzata cioè da una condizione di incertezza e di doppio vincolo, nel senso di Bateson, che scoraggia almeno in questa fase ogni desiderio liberatorio). Corredato dagli inni, il rituale collettivo degli applausi – una forma depotenziata ma che pure condivide alcuni caratteri con lo strepito – farà forse da guida alle altre manifestazioni sonore. Le nuove abitudini dei canti e dei suoni dai balconi potrebbero tornare ad assumere tratti funzionali un tempo appartenuti ai rituali di primavera e del cantar maggio (con i quali anche la tradizione del “Concertone” è lontanamente imparentata). Ma anche il silenzio sarebbe un segnale. Ci aspetteremmo che nuovi o vecchi rituali sonori possano assumere in futuro tratti più drammatici e intensi: non più espressione dell’adesione incondizionata alla norma, ma questa volta del conflitto.
Un’anticipazione di quel che immaginiamo arriva però, in presa diretta, proprio mentre terminiamo questa intervista. Una collega dell’Università di Huddersfield, Cristina Ghirardini, ci informa dell’iniziativa di un collettivo di poeti e poetesse estemporanei toscani, che ha realizzato una “forma straordinaria” del cantar maggio. È noto che nella tradizione del cantar maggio si può essere oggetto di anatemi e invettive se non si apre la casa ai cantori. Il collettivo rivolge dunque i propri anatemi a chi ha vietato l’accoglienza ai maggerini.
Nella registrazione audio, il canto del maggio è preceduto da un’ottava del poeta che commenta in un proemio le attuali condizioni di lockdown. Al termine si ascolta un’ottava di saluto di un secondo poeta.
Non potevamo desiderare di meglio per tornare a dare la precedenza alla realtà. Ed eccovi, per gentile concessione, il testo del maggio.
MAGGIO 2020
1. Dalla bocca dove sorte il cantare improvvisato
il virus non è mai entrato la poesia vince la morte
2. Con quartine m'incammino a lanciare un anatema
ed un nuovo bel sistema che ci serva da vaccino
3. Al tirannico ministro che vorria frenar la lingua
vo' augurare che s'estingua nome suo d'ogni registro.
4. Se vi garba tanto stare chiusi in un appartamento
state dunque in Parlamento mentre noi si va a cantare.
5. Ai sepolcri silenziosi Che riposano in eterno
Maledico sto governo Preferisco i sediziosi
6. C'è chi dice"non mi importa" Perché fora vole andare,
Non ci vole più restare Chiuso dietro alla su' porta.
7. Poi c'è invece chi ha paura Sta con mascherine e guanti
Anche quelli, ce n'è tanti, Che non voglion l'avventura.
8. Tutti qui 'un se ne po' più e S'è finito la pazienza,
Festeggiar? S'ha da far senza Anche nella fase due.
9. Questo è ancora il tristo quadro Da due mesi 'un cambia nulla
Ma c'è chi ci si trastulla Tu lo sai, governo ladro!
10.l governo che ci chiude A star senza i fidanzati
Che da tempo abbiam bramati Solo fumo: Esso ci illude!
11.E perché la Primavera Fuori certo è già scoppiata
Non vo' star "mascherinata", Vo' baciar da mane a sera!
12.Primavera è ritornata e ci bacia tutti quanti
senza maschera né guanti ma per voi la va arrestata.
13.Dunque andiamo all'arrembaggio perché fuori si vuo' uscire
e mai più nell'avvenire virtuale sia il maggio
14.Se sto virus non ha fine non si da più retta a Conte
Noi avrem le rime pronte per cantate clandestine
15.L’anatema scagliam forte Contro chi non ha coraggio
Non ci fa cantare il maggio Che sia ria allor sua sorte
16.Che rimangano nel plesso Quel solar, paralizzati
e che restino minati D'altro virus, con successo
17.senza passi misurati Per istinto questo dico
E davvero maledico Chi ci vuol… decerebrati!
18.E se voi non ci sentite Canteremo ancor più forte
Contro i ladri della sorte Ci verrà la laringite
19.Questo maggio soffocato dall'ignobile nequizia
porti il male e la mestizia tra color che l'han vietato
Maggio collettivo dei poeti estemporanei (pseud.): E. Buggera, Zi'Bigio, I. Da Petrognano, Cecco da Siena, Donna Jonia, Otello, Scrascione, La Bandettina, Magno da Florenza, Cecco Capoccione e L’Auruspinciana
#unitohomecommunity