Primo maggio, la straordinaria storia della canzone di protesta
Un viaggio avventuroso condotto da Ilario Meandri e Jacopo Tomatis, musicologi del Dipartimento di Studi Umanistici di UniTo
La protesta in forma di canto o canzone è il più potente veicolo di istanze, speranze e anche rabbia. Nel giorno del Primo Maggio ripercorriamo con Ilario Meandri e Jacopo Tomatis, musicologi del Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università di Torino, le origini della canzone di protesta. Una storia complessa e articolata, che dal passato guarda al presente e al futuro.
Lavoro e musica, quando e come maturò questo legame e come nasce la canzone di protesta in Italia?
Bisognerebbe scomporre la domanda in due parti, una molto più generale, di carattere antropologico-musicale, ovvero quale è il rapporto tra musica/suono e lavoro; l’altra più circostanziata, e cioè quando è possibile parlare di una musica di protesta che sia propriamente rappresentativa di una coscienza sociale e di classe. Il primo quesito ci porterebbe molto lontano, se vogliamo… all’alba della storia di homo sapiens, ma è importante ricordare che le due dimensioni non sono scisse. I canti funzionali, utilizzati per organizzare ritmicamente il lavoro collettivo (o anche il gioco) o per alleviarne la fatica (come, in Italia, i canti della tonnara, i canti per la lavorazione di pietre, per la mondatura, per la lavorazione dei tessuti; o i canti marinareschi delle diverse tradizioni marittime etc.) fanno parte dell’esperienza umana e ne sono stati raccolti esempi in tutto il mondo. Talvolta questi stessi repertori possono assolvere a un duplice compito, come i numerosi esempi di canti che mentre assolvono una funzione primaria – il ritmo e la voce di una ninna nanna per addormentare il bambino, ad esempio – vengono utilizzati anche per veicolare disagio psicologico e sociale, denunciando la durezza della condizione di vita della donna nella cultura patriarcale o l’ambivalenza del vissuto nei confronti della maternità, del compagno, del nuovo nato. Un canto può cioè non nascere come canto di protesta – soprattutto come oggi lo intendiamo – ma diventare tale in determinate condizioni. Se seguiamo anche solo questo semplice esempio è facile intuire che la domanda “come nasce la canzone di protesta” può avere risposte più o meno complesse, su un arco diacronico anche piuttosto vasto a seconda della prospettiva da cui si considera la questione. Esistono e sono state documentate storicamente forme sonore di protesta come lo strepito, lo charivari, i rituali di derisione di Cristo, del mattutino delle tenebre, le manifestazioni sonore che nella nostra tradizione folklorica si eseguono parallelamente all’atto liturgico che celebra la morte del Dio in terra. L’etnomusicologo Febo Guizzi aveva coniato il termine antimusica: una categoria ombrello utilizzata per descrivere questo insieme complesso di fenomeni, funzionalmente a cavallo tra protesta, pubblica riprovazione ed esorcismo. La letteratura etnomusicologica ha raccolto esempi di antimusica in Italia, in Europa, ma non mancano in tutto il mondo casi che in modo non superficiale ripropongono questo rapporto, come i rituali legati al culto dei morti dei monaci itineranti del Bon, o i rituali amazzonici di esorcismo dell’eclissi di cui trattò Levi-Strauss. Una reazione alla “crisi della presenza”, mediante forme di assembramento sonoro, è in fondo quella cui abbiamo assistito in particolare nei giorni del lockdown, quando assieme agli inni e ai canti e agli applausi questo meme culturale mai estinto ha fatto la sua ricomparsa non episodica, e non solo in Italia, dai balconi… con pentole, coperchi e altri oggetti sonori tipici dello strepito. Le forme dei rituali sonori di protesta sono dunque antiche e, come nel caso dello strepito, possono essere durature, pervasive e avere uno spiccato carattere transculturale.
Ma venendo a tempi a noi più recenti se si intende per canzone di protesta il canto politico e sociale, la sua storia è databile alla rivoluzione industriale – per quanto i repertori nati in questo periodo si fondino su una koinè linguistica che si nutre e assimila la tradizione orale contadina, la tradizione urbana, il canto d’opera, la tradizione dei cantastorie e dei fogli volanti, delle grida sediziose e degli slogan di tradizione urbana e, ancora, dell’innodia borghese, con esempi risalenti alla Rivoluzione francese e al Risorgimento.
Quando e chi raccolse le canzoni del lavoro in Italia? A Torino? E oggi qualcuno continua la tradizione?
L’idea di raccogliere le canzoni dei lavoratori e di rimetterle in circolazione in canzonieri, dischi, concerti si può datare agli esordi del folk revival in Italia, all’inizio degli anni Sessanta. Tra i primi ci furono proprio i torinesi Cantacronache, che nella seconda parte della loro storia – dopo essersi dedicati alla composizione di nuove canzoni “realiste” e impegnate – realizzarono una importantissima raccolta di brani che documentavano le lotte contadine e operaie, insieme ai canti della Resistenza, della guerra... Intorno al 1963 il loro testimone viene raccolto dal gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano, che dominerà la scena del folk revival nazionale fino alla fine degli anni Settanta, e alla cui opera di divulgazione si deve la sopravvivenza nei repertori e negli ascolti degli italiani di molti canti contadini e operai, dall’Ottocento in poi. A questo stesso periodo di impegno politico e ricerca si deve ad esempio il successo di Bella ciao – sulla cui origine ancora si dibatte, cfr. Bermani 2020 – forse non creato ad arte dal revival, come alcuni vorrebbero, ma certamente enormemente popolarizzato da quest’ultimo, che lo ha reso il canto internazionale “popular” che tutti oggi conosciamo.
Quali sono le fasi storiche della canzone di protesta Nel Novecento? E come è cambiato il rapporto tra forma e contenuto?
È una storia lunga e complessa, di certo, la stagione chiave è quella che comincia con gli anni Sessanta, con il revival dei canti sociali, innescato anche dall’avvio, nel decennio precedente, delle prime campagne di ricerca sul campo sulle musiche “popolari”, “tradizionali”, italiane. In questa fase tornano in circolazione molte melodie provenienti dal repertorio dei cantastorie, o dall’innodia socialista o anarchica della fine del diciannovesimo secolo, e spesso gli stessi moduli si prestano a nuove rielaborazioni. Allo stesso tempo, gli anni Sessanta sono anche gli anni in cui arriva in Italia il modello del folk revival americano, con il successo di Bob Dylan per esempio. Si cristallizza una certa idea di come deve suonare una canzone di protesta: un certo tipo di vocalità “autentica”, aspra, la chitarra acustica: un modello che in buona parte sopravvive ancora oggi, a dispetto di tutto.
Quanto si sono, invece, attualizzate le canzoni di protesta negli ultimi anni?
In Italia, la produzione di “canzoni di protesta” declina rapidamente alla fine degli anni Settanta, in parallelo alla crisi della sinistra e al ripiegamento delle organizzazioni sindacali. Continuano a esserci brani di protesta, ma – da un lato – non hanno più quella centralità nel dibattito che avevano nell’”epoca d’oro” degli anni Sessanta e Settanta. E, dall’altro, quel repertorio a sua volta entra nel ciclo nostalgico del revival, per cui assistiamo all’eterno ritorno dei vecchi brani politici. La stagione delle posse negli anni Novanta aveva fatto immaginare uno spostamento delle istanze di protesta sul nuovo linguaggio del rap, ma l’hip hop italiano ha poi seguito altre strade.
E quanto la musica è ancora veicolo di protesta relativamente al tema del lavoro visto anche il depotenziamento della classe operaia?
In realtà, temiamo, molto poco. La prova è data dal Concertone del Primo Maggio organizzato dai sindacati, che non è quasi mai riuscito a uscire dalla spossante riproposizione dei soliti cliché barricaderi, ormai completamente depotenziati e facili alla parodia; tipo «la chitarra acustica accordata calante» e il «percussionista ghanese che è stato ricollocato in un complesso pugliese», come cantavano Elio e le Storie Tese in “Complesso del Primo Maggio”. Meglio è andata quando è stato aperto, con prevedibili polemiche, alla trap. Si è trattato di uno dei pochi, autentici e forse poco compresi, momenti di rottura nella storia recente del Concertone, nel quale davvero un nuovo fenomeno generazionale e creativo, come la trap, con spiccati caratteri di rottura e con agiti (non propagandati), tratti antisistema si è affacciato alla paludata ribalta politico-mediatica. Ma certo ci troviamo in un mondo completamente diverso, che è difficile armonizzare – a meno di forzature – con le “vecchie” istanze politiche, con la stessa costruzione ideologico-politica dell’immaginario poietico e ricettivo della canzone (e del cantante) “di protesta” – un immaginario che ha però perso, nel frattempo, assieme alla storia politica che rappresenta, il monopolio dell’antagonismo. Ma grandi canzoni sul lavoro ne sono state fatte anche nell’ultimo decennio: ci piace ricordarne una, splendida: “Torino pausa pranzo” di Iosonouncane, che racconta dei funerali dei morti della Thyssenkrupp.
IL MATERIALE E L'IMMAGINARIO - PLAYLIST
Di seguito una playlist a cura della redazione di UnitoNews che scandaglia "il materiale e l'immaginario" della Festa dei Lavoratori attraversando suoni e voci di lotta, di fatica e di solidarietà. Cento canzoni per oltre cento anni di storia, di festa e di protesta. Dall’Inno del Primo Maggio nella versione di Giovanna Marini ai giorni nostri, passando per i cori delle mondine, i canti delle lavandaie del Vomero e l’esperienza dei torinesi Cantacronache, arrivando alla fabbrica che pervade l’immaginario dei cantautori degli anni Sessanta e Settanta (Giorgio Gaber, Lucio Dalla, Enzo Jannacci, Rino Gaetano, Fabrizio De André,Paolo Pietrangeli). Con sconfinamenti all’estero, da Bob Dylan a Bruce Springsteen, dal punk dei Clash a Billy Bragg, da Nina Simone a Joan Baez. E, poi, i contemporanei Caparezza, Lo Stato Sociale, Zen Circus. Fino al jazz scomposto di Shabaka Hutchings.