"Nelle mie lezioni cerco di trasmettere la vita sul set". Intervista a Massimiliano De Serio
Regista insieme al fratello Gianluca di "Spaccapietre", presentato alle Giornate degli Autori di Venezia, e docente di regia cinematografica al Dams di UniTo, racconta il suo film e consiglia: "Non guardate solo serie tv, ma anche i grandi autori"
Sabato scorso, 12 settembre, si è conclusa la 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, una delle edizioni più particolari, a causa dell’emergenza Coronavirus, e che sarà a lungo ricordata per i red carpet senza pubblico e le mascherine in sala. Più di cento sono stati i film in concorso e molta Torino era presente in Laguna. Uno di questi infatti è stato Spaccapietre, unico film italiano in concorso alle Giornate degli Autori, rassegna autonoma all'interno della Mostra. I registi sono Massimiliano e Gianluca De Serio, torinesi, che dal 1999 collaborano alla realizzazione di documentari e lungometraggi. La vicenda al centro del film prende spunto da un fatto di cronaca di qualche estate fa, ma soprattutto dalla storia dei nonni paterni dei due registi, che erano braccianti e spaccapietre nei campi pugliesi, come il protagonista del film, Giuseppe, interpretato da Salvatore Esposito. Lo spettatore segue la sua vita come spaccapietre e quella di suo figlio in una tendopoli dove vivono insieme agli altri braccianti.
Abbiamo intervistato Massimiliano De Serio che è anche docente di regia cinematografica al Dams di Torino.
Non è la prima volta che siete presenti a Venezia con un vostro film. Com’è stata questa edizione della Mostra?
È stata emozionante, come anche quella precedente, dove avevamo partecipato alla selezione principale ma fuori concorso, con un documentario, I ricordi del fiume. Questa volta con Spaccapietre ho sentito una forte tensione, perché anche se le mascherine ci coprivano mezzo volto, gli occhi dei nostri amici e di chi stava nella Sala Perla del Casinò erano ben visibili e alla fine della proiezione luccicavano per le lacrime. Questo ci ha commosso tantissimo. Non ci aspettavamo un’accoglienza di questo tipo. Le persone sono state molto affettuose stringendosi a noi alla fine del film. È stata una bella emozione, anche se fugace, perché dopo pochi giorni siamo partiti per presentare il film in giro per l’Italia.
In una recente intervista a il manifesto avete detto che questo è il film produttivamente più complesso che avete girato. Perché?
È un film che vive di tanti personaggi, dialoghi e location, rispetto a quelli precedenti. La storia si dipana in diversi luoghi della Puglia, dal paese di Spinazzola alla città di Bari, dalla costa adriatica fino alla città di Pulsano dove abbiamo costruito un ghetto. Anche solo la ricostruzione di un ghetto, con oltre 50 baracche è stata una sfida molto dura. Poi ci sono effetti speciali, esplosioni, incendi, armi da fuoco, violenza, tante comparse. Il film è costato più del doppio di quello precedente e quindi è stata una grossa fatica per noi e per il produttore mettere su tutto ciò che serviva per realizzarlo, però è stato anche emozionate calarci sempre di più, rispetto alle fatiche precedenti, nella macchina cinematografica.
I temi sociali, in Spaccapietre soprattutto quello del caporalato, sono al centro del vostro lavoro da sempre. Perché secondo voi il cinema è il modo migliore per trattarli? Quanto è importante l’impegno sociale per un regista?
Non so se si tratti di impegno sociale o di un tema. Per noi due è naturale affrontare delle scintille e delle vibrazioni che risuonano dentro di noi da tempo, forse anche da quando siamo bambini, se non prima. Ci sono delle cose che sentiamo necessarie e che, prima o poi, escono fuori nei nostri lavori. In questo caso Spaccapietre si cala dentro una realtà, quella del caporalato, che abbiamo avuto modo di toccare con mano in questi ultimi anni con i sopralluoghi per i film, ma che appartiene anche alla storia della nostra famiglia. Nostra nonna era una bracciante che lavorava sotto padrone nei campi del Sud, in Puglia, ed è stata uccisa dal lavoro e dalla fatica mentre raccoglieva le olive. Naturalmente questo fatto, successo nel 1958, è rimasto nella memoria familiare. Da qui è scaturito il film. Per noi, quindi, ciò che incontriamo, il mondo in cui viviamo, le persone che ci circondano finiscono per rientrare nei nostri film quasi naturalmente.
Google inserisce tra i film che parlano di caporalato, oltre al vostro, anche Siamo uomini o caporali. Totò nel film diceva “I caporali sono coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza averne l’autorità, l’abilità o l’intelligenza ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque” e anche “l’umanità, io l’ho divisa in due categorie di persone: Uomini e caporali”. È ancora vero?
Si, purtroppo. Ovviamente lo è nel contesto specifico del bracciantato, dalle terre del Sud al Piemonte. A Saluzzo abbiamo una grossa baraccopoli, dove i migranti sono costretti a vivere durante il periodo di raccolta della frutta. Però in generale, se si allarga lo sguardo, i caporali sono tanti. Sono quelli che sfruttano gli altri, le loro posizioni di potere, i possedimenti e il denaro contro i più deboli che sono costretti a lavorare in condizioni misere. In Italia, ne abbiamo tanti e stratificati esempi, ma anche nel resto del mondo, sia nei Paesi cosiddetti in via di sviluppo sia nei Paesi occidentali, dove queste cose continuano ad accadere e ci sono molti giornalisti indipendenti che rischiano la vita per affrontare questi argomenti nelle loro inchieste. Purtroppo questa divisone è una divisione netta tra buoni e cattivi che esiste e spesso non viene alla luce.
A Venezia siete arrivati da Torino, la prima città italiana del cinema. Torino ha ancora cose da raccontare cinematograficamente?
Sì, come ogni città e comunità del mondo. Torino ha una sua forza narrativa e storie nascoste o meno che necessitano di essere raccontate. Il problema non sono le storie. Spesso dico che ognuno di noi ha la dignità e la possibilità di essere raccontato in qualche modo. Il problema sono il tessuto produttivo, l’ambiente culturale e le politiche culturali che ci sono attorno al cinema, al teatro, all’arte, alla scrittura e a tutte le forme di espressione che contraddistinguono l’essere umano. Nel cinema sicuramente c’è un grande fermento in tutta Italia e anche a Torino ci sono autori che stanno cercando di raccontare storie e mettere su il loro film. Forse, però, Torino sta perdendo un po’ l’appeal che aveva qualche anno fa, per tanti motivi. Credo manchino un’organizzazione e una rete tra le varie realtà indipendenti della città.
Lei insegna anche al Dams di Torino. Cosa significa insegnare regia e cosa prova a restituire del suo mestiere agli studenti?
I ragazzi di vent’anni che affollano i miei corsi sono esempi di questa voglia di raccontare di cui parlavamo prima. È ovvio che a volte trovano un terreno fertile intorno a loro e altre volte non hanno agevolazioni per poter affrontare questo percorso formativo. L’Università è uno di questi terreni. Io cerco di trasmettere la necessità di fare questo mestiere, il lavoro e le emozioni che ci sono, non proprio i segreti di bottega, ma almeno la vita sul set, facendo incontrare loro i miei collaboratori.
Ci sono dei registi a cui lei si ispira di più e che consiglia ai suoi studenti di conoscere?
Sicuramente i corsi sono ricchi di riferimenti e cerco di trasmettere le mie passioni, anche se l’ideale è dare un ventaglio aperto delle grandi possibilità che il cinema ci offre come spettatori. Noi abbiamo la fortuna di poter vedere tanti film di autori esordienti o affermati e dei grandi maestri. Per quanto mi riguarda le ispirazioni sono tante. Per Spaccapietre uno degli autori che abbiamo visto per settimane prima di girare era Jia Zhangke, un famoso regista cinese.
Quello che dico sempre ai miei studenti è di non guardare solo le serie tv, che sono comunque importanti, perché fatte sempre di più da grandi maestri e con una grande sperimentazione di linguaggi. Ma senza le basi non si riesce a capire dove va il cinema oggi. è utile, allora, vedere i grandi autori del passato e le cinematografie più marginali, come quelle dell’Estremo oriente, del Sud America e anche dell’Africa o autori europei che sono ai margini non solo produttivi, ma anche a livello estetico e raccontano il mondo con uno sguardo originale. Il cinema, poi, non vive solo d’immagini, ma è un processo creativo e d’ispirazione che trascende il cinema stesso e va a toccare la letteratura, la pittura, la storia dell’arte. Quindi dico loro che il percorso formativo deve essere a 360 gradi e l’istruzione universitaria non può essere l’unica, ma bisogna sempre slittare lateralmente in una sorta di costante deriva contro ciò che ci viene proposto per scoprire anche le parti nascoste della produzione culturale.