Dal Dams di Torino alla Mostra Venezia, la storia di Stefano Cravero: montatore di due film in concorso
Montatore di Miss Marx di Susanna Nicchiarelli e di Spaccapietre dei fratelli Massimiliano e Gianluca De Serio, ripensando agli anni universitari, sottolinea: "Non bisogna mai sottovalutare la parte teorica"
Questa 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia sarà ricordata, a causa dell'emergenza Coronavirus, come una delle più particolari della storia: red carpet senza pubblico, mascherine in sala. Ma, finalmente, il cinema è tornato protagonista. Quando si pensa alla settima arte, si immaginano la Croisette, gli Oscar e il Lido di Venezia, gli attori e i registi, ma dietro alla creazione di un film ci sono molti altri professionisti, tra cui i montatori. Uno di loro è Stefano Cravero, montatore professionista, laureato al Dams di Torino e diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Nel 2108 ha ottenuto la nomination come miglior montatore ai David di Donatello per Nico 1988 di Susanna Nicchiarelli e quest’anno ha curato il montaggio di due film presenti in Laguna, Miss Marx di Susanna Nicchiarelli e Spaccapietre dei fratelli Massimiliano e Gianluca De Serio.
Che atmosfera si respira a Venezia quest’anno?
L’atmosfera non era quella solita, soprattutto l’aspetto di festa. Per me e per tutti quelli che fanno questo lavoro, un festival è sempre un momento anche di grande terrore, perché ci si confronta con il pubblico e non si sa mai come vanno le proiezioni, però è anche un un'occasione di festa. Essere lì vuol già dire essere contenti e festeggiare la nascita di un film, la sua uscita pubblica. Questo aspetto è stato più dimesso, ma si sentiva nell’aria. D’altra parte, c’era molta emozione, forse più del solito, perché Cannes non c’è stato e siamo ancora in un periodo molto difficile. Ma è stato emozionante andare in sala, ovvero fare una cosa normale. Mi ha poi molto colpito l’organizzazione del festival, che ha fatto un lavoro eccellente in condizioni difficili.
Lei è presente al Festival con Spaccapietre e Miss Marx, due produzioni diverse tra loro, una internazionale e una più nazionale. Come è stato lavorare in queste due produzioni?
Sono due film molto diversi ovviamente e sono tutti e due in qualche modo internazionali, perché anche Spaccapietre è una produzione italo-francese e quindi avrà un’uscita in Francia e si spera anche in altri Paesi e dunque potrà avere una portata più internazionale. Ovviamente sia i budget che gli apparati produttivi come le storie personali dei registi sono molto diversi. Con entrambi i registi ho una conoscenza molto lunga. Con Susanna Nicchiarelli e i fratelli De Serio lavoriamo insieme da quando avevamo vent’anni e facevamo l’Università. Avere tutti e due questi film a Venezia è stato per me un punto di arrivo enorme, oltre a farmi sentire un po’ anziano. Il film di Susanna era ed è un passo avanti dal punto di vista produttivo, è un film con un budget più importante,. Con i De Serio siamo stati molto contenti di essere selezionati a Venezia ed è una cosa importantissima, perché più è piccolo il film più è gratificante essere selezionati ai festival, che danno molta risonanza alla pellicola.
Qual è l’equilibrio tra le indicazioni del regista, il suo stile e lo stile e il lavoro del montatore?
L’equilibrio è la parola giusta. Si dice sempre, ed è vero, che il cinema è un’arte collettiva, perché per fare un film ci vogliono di solito un sacco di persone. È anche vero, però, che alla fine è soprattutto l’opera di un autore, un regista. Credo, quindi, che l’elemento chiave del mio lavoro sia cercare di interpretare e capire cosa un regista voglia raccontare e quel qualcosa ovviamente non è per forza la storia principale, ma è il cuore o il nucleo di ciò che il regista ha da raccontare. In questo processo intervengono il mio stile e le mie proposte, ma resta un lavoro al servizio di un’idea altrui e questo va tenuto ben presente. È un’armonia che si crea e si cerca di creare e, quando questo riesce, porta a un risultato soddisfacente per tutti.
Quanto influisce il montaggio sul senso dei film?
Influisce sempre tantissimo. È una fase molto delicata, si tratta di una scrittura che si fa con le immagini e con i suoni. Le scene svaniscono, si spostano, vanno a finire da un’altra parte, acquistano un senso che originariamente non avevano. Durante il montaggio succede di tutto, ma sempre finalizzato a tirare fuori il più possibile quel cuore e quell’idea che stavano alla base del film.
Il 2020 è anche l’anno in cui Torino è città del cinema. Si può ancora fare cinema a Torino?
Dal punto di vista tecnologico si può, ormai, fare dappertutto. La produzione cinematografica si sta pian piano allargando ed esce dai suoi territori cinematografici tradizionali. Quello che adesso serve, secondo me, è uno spunto in più a livello istituzionale. Un sostegno che non è soltanto legato alla prima fase della produzione, allo sviluppo del progetto o alle riprese, come accade con le tante Film Commission come quella di Torino e del Piemonte, che funziona benissimo, ma anche a tutto il resto, per esempio alla post-produzione, come il montaggio, il mixer, il suono, gli effetti. E, poi, ritengo che servirebbe un grosso impegno nella formazione, la base di qualunque aspetto in ogni settore.
Lei si è laureato al Dams a Torino e poi ha deciso di fare il montatore. Ha scelto questo mestiere mentre studiava o in seguito?
Ho avuto una precoce passione per il cinema, fin dalle scuole medie, e già allora sapevo che era quello che volevo fare nella vita. In realtà, ho capito abbastanza presto che quello che mi piaceva davvero era montare. Nei primi anni di Università avevo realizzato dei cortometraggi insieme a un mio amico e facendoli mi ero innamorato della fase di editing, la più divertente e che più mi appassionava. Mentre frequentavo l’Università, tra un esame e l’altro, tra una lezione e l’altra, andavo in piazza Vittorio, in uno studio che si chiamava Casa Sonica, lo studio dei Subsonica, dove c’era il padre di Max Casacci, Ferruccio Casacci, che era un documentarista e un personaggio quasi mitico della cinematografia torinese. Io lavoravo con lui. Il montaggio digitale era agli esordi, io ero giovane e Ferruccio non aveva nessuna voglia di imparare a usare il computer e per me è stata un’occasione enorme. Lui me ne acquistò uno e mi disse: "Impara tu a montare con il computer, perché io non ho nessuna intenzione".
Vuoi dare un consiglio agli studenti del Dams e a chi si vuole approcciare al montaggio?
Il consiglio per quanto banale possa sembrare è: guardate un sacco di film, studiate un sacco e leggete un sacco di libri. Mi ricordo che quando facevo il Dams un po’ soffrivo, perché avevo deciso che volevo fare cinema e nel mondo accademico, per forza di cose, non si fa tutta questa pratica; però, l'università apre la testa e il suo bagaglio ce lo portiamo dietro sempre. Il mio consiglio è che anche se uno ha deciso che vuole fare il cinema non bisogna mai sottovalutare la parte teorica. In questi giorni a Venezia ho visto un sacco di film, sono stato contentissimo e ho ripensato agli anni dell’Università in cui venivo al festival e vedevo cento film senza mangiare perché volevo vederli tutti di seguito. È certo importante trovare il modo di mettere le mani sul materiale, montare e imparare a fare pratica, ma la parte teorica e accademica è il patrimonio che ti porti poi dietro per sempre e che continua a influire sul lavoro.