L'Università di Torino ricorda l'artista Christo
Nel 2017 Unito gli aveva conferito la Laurea Honoris Causa in Storia dell'Arte.
È venuto a mancare all'età di 84 anni Christo Vladimirov Javacheff, meglio noto come Christo, uno dei più importanti e popolari artisti contemporanei, massimo esponente della Land Art. Nel 2017 l'Università di Torino gli aveva conferito la Laurea Honoris Causa in Storia dell'Arte ‘per aver ampliato con le sue opere la concezione dell’arte e modificato la nostra percezione della realtà; per aver offerto con la sua vita un continuo esempio di libertà e indipendenza; per aver condiviso con il pubblico più vasto l’esperienza del suo lavoro, che si annovera fra le prove più luminose della creatività umana.’
Per ricordare e comprendere meglio il genio creativo di Christo, la redazione di Unitonews ha deciso di pubblicare integralmente la Laudatio della Prof.ssa Federica Rovati, docente di Storia dell'Arte Contemporanea all'Università di Torino, declamata durante la cerimonia di conferimento della Laurea Honoris Causa in Storia dell'Arte a Christo.
LAUDATIO
Per uno storico dell’arte che sia abituato, per metodo, a un accertamento rigoroso di datazioni e di messa in sequenza delle opere di un artista, quale operazione preliminare alla loro comprensione critica, il lavoro di Christo offre un’esperienza insolita e per certi versi esaltante, in ragione delle contraddizioni che pone: la cronologia infatti salta, o meglio deve ammettere al proprio interno la presenza di serie diacroniche che scorrono in parallelo e fanno convivere nello stesso giro di tempo ricerche formali apparentemente asincrone.
Due chilometri e mezzo di costa australiana rivestiti di teli bianchi; un’immensa tenda arancione fra le sponde di una valle in Colorado; un muro impalpabile di nylon bianco che attraversa il territorio californiano fino all’oceano; distese di polipropilene rosa che si allargano a corona attorno a undici isole del Pacifico; una passerella gialla flottante sulle acque del lago d’Iseo: sono alcuni esempi, fra i più noti, degli interventi ambientali di Christo, la cui esecuzione ha richiesto tempi molto lunghi, che ne hanno talvolta posticipato la conclusione rispetto ad altre opere di concezione più recente. L’impacchettamento del Pont-Neuf a Parigi nel 1985, quello del Reichstag a Berlino nel 1995 si sono inoltre inseriti nella successione delle opere appena ricordate confermando la persistenza di una modalità di lavoro che l’artista ha impostato alla fine degli anni Cinquanta con i cosiddetti «pacchi», di cui ha presto immaginato la possibile estensione a una dimensione ambientale: un’ipotesi di lavoro che ha quindi verificato alla Kunsthalle di Berna e a Spoleto nel 1968, al museo di Chicago nel 1969, e ha ribadito negli anni Settanta, nel 1974 a Roma con l’impacchettamento delle mura aureliane e appunto con i progetti realizzati a distanza di dieci, vent’anni, nelle due capitali europee. Non solo. Se si stringe l’attenzione su un periodo limitato di tempo, la presenza di opzioni differenti prende maggiore risalto: negli anni Sessanta ci sono ad esempio i pacchi, i barili, le vetrine cieche, e fra gli interventi ambientali anche i gonfiabili proposti a Eindhoven, poi a Minneapolis, infine a Kassel nel 1968. Pertiene a molti protagonisti dell’arte contemporanea l’attitudine a sovvertire i confini definitori dell’arte, persino dentro il recinto del proprio lavoro, e appartiene a Christo in particolare la vocazione a spostare le frontiere del possibile. Ma qui sta il punto: capire lo scatto delle sue scelte; capire cosa determina lo scarto verso soluzioni inedite e di fatto inconseguenti, e cosa sollecita invece la ripresa di soluzioni già esplorate.
Se si vuole privilegiare una linea di continuità, nel percorso creativo dell’artista si possono individuare sequenze di opere omogenee, su archi temporali estesi: dagli oggetti impacchettati all’impacchettamento di edifici; dalle latte ai barili di petrolio, ai muri di barili, fino all’enorme mastaba progettata per Abu Dhabi e non ancora realizzata. Allo stesso modo si può riconoscere un comune denominatore di molti lavori nel materiale usato, ossia il tessuto, che sia bianco, trasparente o colorato, che sia cotone, tela cerata, plastica, polipropilene, poliestere, poliammide, o altro ancora: è un involucro che occulta, preserva o soffoca le cose; uno schermo opaco che ostacola lo sguardo; una membrana sottile che trattiene la pressione dell’aria, che reagisce al vento e alla luce. La coerenza non ammette tuttavia ripetizioni; permette anzi di apprezzare le varianti applicate a una prima intuizione, insieme alla definizione delle rinnovate verifiche formali che si rivelano pertinenti ai relativi contesti storici e ambientali: ecco, allora, la tonalità dorata assunta dal rivestimento del Pont-Neuf parigino a confronto con la fredda qualità metallica prescelta per il parlamento tedesco; o ancora, negli interni, l’effetto gessoso della stoffa bianca nel museo di Chicago, in drammatico contrasto con il rivestimento scuro all’esterno, e invece la luce lenta e calda che filtrava nelle stanze antiche di palazzo Bricherasio, qui a Torino nel 1998, attraverso la carta da pacchi applicata alle finestre, che addolciva la percezione del tessuto disposto sul pavimento e sulle scale. Agire su un monumento storico comporta cautele e azzardi diversi da quelli possibili in un ambito privo di connotazioni artistiche o simboliche; implica un confronto diretto con il passato e con le forme di questo rispetto: al limite, può svelare la fragile retorica delle reazioni polemiche, come a Milano nel 1970, quando l’impacchettamento del monumento a Vittorio Emanuele II fu accusato di oltraggio alla storia patria. Cambiano le situazioni e si modificano di conseguenza le questioni poste dai singoli lavori, pur nella persistenza dell’idea originaria cui essi fanno di volta in volta riferimento. Ogni opera di Christo apre infatti una nuova serie di problemi.
Prendiamo i pacchi. Se si scorrono le dichiarazioni rilasciate dall’artista negli anni Sessanta, nel corso di alcune interviste, si può notare come l’elemento di novità di quelle opere, che ha subito richiamato l’attenzione dei contemporanei, venga stranamente ridimensionato portando a paragone gli involti di ogni genere di cui si fa quotidiana esperienza, dagli imballaggi domestici ai grandi teloni di copertura nei docks industriali: l’artista non farebbe altro che mettere in risalto con il suo lavoro una dimensione inosservata della realtà, una qualità estetica negletta. Non sussistono infatti preclusioni né gerarchie nella scelta degli oggetti passibili di impacchettamento; del resto, tutta l’arte del Novecento l’ha insegnato: ogni cosa può essere opera d’arte. Alcuni confronti sono stati di conseguenza proposti in sede critica, chiamando in causa Marcel Duchamp per la componente concettuale che presiede al prelievo oggettuale, nella misura in cui la dimensione tautologica è già arte; e ancora i surrealisti, in particolare Man Ray, per la latenza metaforica avvertibile nella concretezza delle cose, ossia per quella componente di mistero che si percepisce di fronte al contenuto spesso inconoscibile e all’aspetto inquietante dei pacchi. Altre valutazioni hanno invece preferito riconoscervi la pressione di un dramma esistenziale proprio alla condizione del fuggiasco, il quale stringe nel fagotto le cose essenziali alla sopravvivenza, oppure le protegge, per un atto di affezione estrema, prima di abbandonarle; un confronto che trascina con sé il ricordo dell’esperienza personale dell’artista in fuga dal regime sovietico, approdato nel 1957 a Vienna, poi a Ginevra e nel 1958 a Parigi.
Queste interpretazioni alternative non fanno problema poiché appartengono alla naturale evoluzione della disciplina storico-artistica; si sono infatti cadenzate in fasi successive e hanno risentito di vicende storiche e culturali differenti, rivelandosi paradossalmente insensibili ai trascorsi biografici dell’artista nei primi anni Sessanta, quando essi erano più vivi (ma erano gli anni del boom economico e dei conseguenti ottimismi, poco disposti a confrontarsi con le tragedie della storia nel momento in cui gli strascichi della guerra apparivano finalmente consumati); e mostrandosi invece più attenti a considerarli nel decennio successivo, in una fase di generale ripiegamento pessimistico (gli anni della crisi energetica, delle delusioni post- sessantottine). È ugualmente significativo che il cosiddetto «rideau de fer», ossia l’ostruzione di rue Visconti a Parigi, ideata nel dicembre 1961 e praticata nel giugno successivo con l’accumulo di decine di barili a formare un muro trasversale nella piccola strada, sia stato dapprima interpretato come una provocazione estemporanea di matrice dadaista e soltanto in seguito sia stato apprezzato nella sua ragione storica, come contraccolpo della recente costruzione del muro di Berlino: Christo costringeva i parigini a imbattersi in quell’ostacolo inaspettato e assurdo, a capire cosa volesse dire trasformare una strada in un vicolo cieco.
Ciò che importa evidenziare è però la capacità dell’artista di mantenersi sul bilico di possibilità differenti di comprensione, e questo non soltanto perché la qualità raggiunta assicura alle sue opere una durata sovratemporale, offrendole al divenire del pensiero critico, ma per una scelta consapevole, quella cioè di sottrarsi alle etichette con cui viene abitualmente vivisezionata, ossia mortificata, la storia dell’arte contemporanea. Non è un caso che le dichiarazioni dell’artista siano divenute, nel tempo, sempre più rare, e che nel sito ufficiale la moglie Jeanne-Claude si sia impegnata a correggere alcuni equivoci frequenti, formulando una serie di affermazioni in negativo che dicono cosa le opere di Christo non sono, ma non ciò che esse sono.
Quando nel 1968 Christo ha proposto di bloccare Fifth Avenue a New York con un muro di barili, ha voluto confrontarsi con una situazione molto diversa da quella parigina, e non soltanto a livello dimensionale: il momento storico, il luogo, l’occasione erano diversi, a partire dal fatto che quell’intervento avrebbe dovuto concludere la rassegna storica su dada e surrealismo allestita quell’anno al MoMA. Il progetto obbligava le autorità locali a una scelta difficile: respingerlo, per evitare la paralisi del traffico urbano, avrebbe significato assumere una posizione ostile all’arte; accettarlo, avrebbe significato comportarsi da irresponsabili per le ricadute negative che ne sarebbero derivate nella vita della città. Vinse la prima ipotesi: il progetto restò inattuato. Però la questione era posta. Christo era ben lontano dall’assumere il ruolo di mero provocatore che era stato tipico delle avanguardie storiche, relegando i referenti istituzionali in una posizione inevitabilmente retriva, secondo un gioco retorico prevedibile: le pose dell’artista spericolato e geniale, quindi sfortunato e incompreso non appartengono all’etica di Christo. Quella semplice proposta smuoveva le regole del gioco più a fondo di qualsiasi atto contestatario poiché costringeva a prendere comunque posizione nei confronti dell’arte, e sul ruolo dell’arte nella società, in modo ragionato e consapevole; a riconoscere che l’opera d’arte modifica la percezione della realtà, se non la realtà stessa.
Christo è del resto un artista tenace. Per realizzare Valley Curtain ha dovuto superare la perplessità e le ostilità della popolazione e delle autorità locali, dimostrare la fattibilità e soprattutto la necessità di un’opera tanto impegnativa quanto inutile dal punto di vista pratico, ottenere i permessi legali, prima di intraprenderne l’esecuzione nell’agosto 1972 sulla base di precisi calcoli condotti da ingegneri e metereologi. Per realizzare Running Fence ha dovuto impegnare tutta la sua forza persuasiva per convincere i proprietari dei terreni e delle fattorie interessate dal progetto a concedere il passaggio di quella leggera cortina di nylon bianco che per quaranta chilometri doveva muoversi sinuosa sulle colline californiane, prima di gettarsi nell’oceano: sono occorse diciotto udienze pubbliche, è stato compilato un voluminoso rapporto per rassicurare sul minimo impatto ambientale dell’opera e finalmente, dopo quattro anni di negoziazioni, essa è stata compiuta nel settembre 1976. Una squadra di avvocati, ingegneri, biologi e ornitologi è stata coinvolta per tre anni nella progettazione di Surrounded Islands, fino al maggio 1983: quello che ancora oggi si offre, nelle testimonianze fotografiche, come un meraviglioso spettacolo visivo di atolli rosa sull’azzurro dell’oceano, di enormi ninfee sbocciate sull’acqua, è l’approdo di uno strenuo lavoro di preparazione scientifica. Ancora, le migliaia di ombrelloni gialli e blu disseminati rispettivamente nelle distese californiane e nelle ordinate risaie giapponesi hanno richiesto sette anni di discussioni e di accordi prima di potersi aprire simultaneamente, nell’ottobre 1991, sulle opposte sponde del Pacifico. Ma tutti i lavori di Christo sono esempi di intelligenza, seduzione e tenacia.
Quando si presentano i lavori di Christo si resiste a fatica alla tentazione di esibire gli impressionanti dati numerici che li riguardano: le dimensioni sempre più estese, da misurare in ettari e chilometri; la quantità e il peso complessivo dei materiali impiegati: teli, pali, funi, cavi d’acciaio; il numero delle persone coinvolte: decine di professionisti, centinaia di operai e di volontari. Non si può escludere che proprio la fitta presentazione dei dati tecnici dichiarati nelle relazioni progettuali abbia contribuito ai successi diplomatici dell’artista, ossia a convalidare la fama di Christo quale artista serio, affidabile, coscienzioso, responsabile, capace insomma di padroneggiare senza rischi una complessa macchina organizzativa. Nel 1975, in un colloquio con Tommaso Trini, egli ha precisato con forza questa dimensione concreta del fare arte: «per tutte le implicazioni sociali, economiche, urbanistiche, ecologiche, culturali che scatena, per tutti i problemi che non sembrano avere nulla a che fare con il lavoro di un artista ed invece ci si accorge che sono i nodi, le contraddizioni, le riserve e le incognite che più lo riguardano e che inoltre riguardano le strutture sociali e culturali su cui va ad agire...».
È del resto un luogo comune poco veritiero, è una falsa eredità romantica la concezione degli artisti come uomini persi in una dimensione irreale e disinteressata. Quando Jeanne-Claude ha detto: «ogni nostra opera è un grido di libertà», ha espresso non soltanto quella sensazione di pienezza e di felicità che nasce negli spettatori dall’esperienza dei molti lavori di cui è stata coautrice, ma ha evidenziato anche la condizione che li ha resi possibili. Christo e Jeanne- Claude hanno infatti messo a punto un sistema di autofinanziamenti che garantisce piena indipendenza al lavoro artistico attraverso la vendita di progetti, fotografie e crediti fotografici, permettendo al vasto pubblico la fruizione gratuita delle opere.
Lo storico dell’arte trova qualche conforto agli strumenti essenziali del proprio mestiere, cioè alla capacità conoscitiva dello sguardo, quando subito riconosce queste qualità di rigore e di passione nei disegni di Christo. Non bisogna infatti dimenticare che Christo è un disegnatore esperto che affida alle prove grafiche l’atto preliminare alla realizzazione dei suoi progetti: non come studi preparatori, ma come prefigurazioni eloquenti di realtà possibili. Basta vederli, questi fogli, per comprendere in quale misura tensione intellettuale, immaginazione e senso pratico siano doti interdipendenti: dentro un’impalcatura rigorosa, la parte lavorata a collage, a grafite e mine colorate, in cui si libera la vena pittorica dell’artista, il suo gusto, la sua eleganza, si confronta con tracciati planimetrici e fotografie, con campioni di tessuto e misure, insomma con tutto ciò che rende plausibile, concreta e infine verificata l’esistenza di opere tanto impegnative quanto effimere.
I dati statistici snocciolati ogni volta dalla letteratura critica rendono infatti più sorprendente, per contrasto, la realtà precaria e vulnerabile degli interventi ambientali, la cui esistenza dura poche settimane, al massimo qualche mese; poi essi vengono smontati e il luogo interessato riportato alla sua precedente condizione. Christo e Jeanne-Claude hanno spiegato come la dimensione transitoria contribuisca a determinare nel pubblico un senso di urgenza, ossia di necessità più impellente nel godere eventi rari, fuggevoli e irripetibili. L’orchestrazione corale che rende possibile quelle imprese trova così corrispondenza, a lavori ultimati, nella loro ampia fruizione; e molte testimonianze raccontano come le resistenze incontrate nella fase progettuale si sciolgano alla fine in un clima di festa.
Se allora Christo porge un insegnamento allo storico dell’arte, questo riguarda le opportunità di conoscenza insite negli ostacoli e nelle contraddizioni che minano di frequente il percorso di ricerca: perché non tutti gli atti umani sono coerenti, le cause e gli effetti non sempre si corrispondono, esiti felici posso scaturire da condizioni ostili. Per questo insegnamento che incide sui metodi della disciplina, e per la qualità altissima delle opere, oggi noi conferiamo a Christo la laurea ad honorem in Storia dell’arte.
Prof.ssa Federica Rovati